martedì 10 giugno 2008

BOTTA & RISPOSTA - Ma dov’è la grande narrativa?

di Marco Cimmino e Gabriele Marconi

E no, caro Gabriele: ad avere belle idee sono capaci tutti. Così come ad immaginare strutture ardite, come cattedrali di paragrafi e di capitoli, non ci vuole più l’ingegno ardito dell’Alighieri, ma basta un ingegnere.
Oggi, purtroppo, il romanzo ha perduto la sua caratteristica di artigianale levigatura: oggi si scrive in serie e i romanzi sembrano sempre più quei polli in batteria, che vengono lasciati razzolare nell’aia soltanto quando qualche vecchiardo con l’uzzolo delle pubblicità decida di dare l’idea del volatile ruspante al consumatore ingiulebbato, facendosi ritrarre tra bambini deficienti e galline starnazzanti. Ma la letteratura, quella vera, è bella e morta, mio caro: oggi prosperano i Ken Follett, gli Stephen King in sedicesimo. E giacchè proprio King è uno dei tuoi prediletti, prenderò proprio lui per farti un esempio.
Stephen King è certamente un visionario di prim’ordine: un eccezionale creatore di idee narrative. È anche, va detto, un bravo scrittore: uno che conosce come pochi il mestiere di scrivere. Purtroppo, però, ha due difetti immedicabili: è americano e vive in quest’epoca americanissima. Quindi, proprio lui che, ne sono certo, disprezza la macchina editoriale statunitense, basata sul marketing, sui ghostwriter, sulle pubbliche relazioni, sui reading, è il padre della moderna ricetta letteraria: un genio al servizio della mediocrità, verrebbe da dire. Infatti, King è stato il primo o, perlomeno, il primo di fama mondiale, ad applicare il lievito alla scrittura: ogni sua idea, da cui avrebbe potuto uscire un bellissimo racconto, agile e scarno, oppure un romanzo breve, di quelli che ti tengono legato alla sedia per ore, è stata dilatata, gonfiata, amplificata, utilizzando tutti i più vieti stilemi della retorica ciceroniana. L’operazione è servita a fare assumere ad una “fabula” adatta alle cento paginette la dimensione, ideale per il mercato americano, di Guerra e Pace: il tipico mattone da cinquecento pagine, di quelli che si portano in vacanza o che si leggono a piccoli bocconi prima di addormentarsi. Una volta si chiamavano, per questo, livres de chèvet.
Così, al dì d’ancuo, i cosiddetti bestseller hanno tutti lo stesso formato: carta grossa, caratteri ben leggibili, rilegatura pesante e cinquecento pagine. Poco importa se contengono una storia che Maupassant avrebbe inserito nei suoi Contes, che di pagine ne fanno trecento, con trenta idee diverse e trenta racconti indipendenti uno dall’altro: oggi Maupassant scriverebbe un quinto e guadagnerebbe dieci volte di più. Oppure si tirerebbe un colpo, più probabilmente. E, leggendo Follet o Forsyth o un altro di quelli con un cognome da banca d’affari di Manhattan, il lettore prova, inevitabilmente, la sensazione di una pletora di descrizioni minute: un uragano di particolari poco significativi diluiscono la trama, l’intreccio e l’azione. Per raggiungere le fatidiche cinquecento, maledette, pagine. Alla fine del romanzo, rimane l’impressione di una bella storia, magari ben costruita, ma che si poteva raccontare in tre, quattro colpi di scena, al massimo. E che i deuteragonisti potevano essere tre, quattro: non venticinque, di cui venti scompaiono senza interferire incisivamente con la vicenda. O forse, questo pare a me, perchè affronto la pagina bianca maniacalmente: la vedo come un pentagramma, in cui solo l’accostamento esatto tra le note può dare origine ad armoniosi accordi e non a grottesche cacofonie. Ogni singola parola, ogni aggettivo che si accoppia col suo sostantivo, appare ai miei occhi come un frammento di un gigantesco mosaico: e solo una è la tessera che, per colore e per forma, si adatta perfettamente ad un’altra.
Questo mi ha sempre portato a detestare le epoche letterarie votate al contenuto: all’idea che prevale sulla forma. Le epoche magnificamente educative della letteratura mi hanno sempre fatto recere, sia detto tra noi: il Romanticismo, il Neorealismo, mi lasciano la stessa impressione di questa desolata letteratura contemporanea, che non racconta nulla e, per di più, non insegna nulla.
Lo so che esagero, come al solito. Ma, siccome queste righe, oltre a te, che mi conosci come le tue tasche, devono leggerle anche i nostri ventidue lettori (uno meno di Guareschi), voglio essere esageratamente esplicito.

È ovvio che non mi sogno di negare il valore di una letteratura densa di contenuti, siano essi valoriali come estetici: quel che voglio dire è che, se al posto dell’arte o dell’ottimo artigianato, si introduce il taylorismo nella creazione letteraria, la letteratura va a remengo. Insomma: non basta avere delle idee o delle visioni. Bisogna anche conoscere meticolosamente le regole della produzione formale: perchè in un’opera d’arte forma e contenuto si equivalgono e, anzi, spesso coincidono. Io preferisco una pagina, apparentemente non narrativa, scritta nel pirotecnico barocco di Gadda, a tutto Vittorini. Incornicerei con l’alloro e l’ulivo un’ipotiposi di Buzzati, laddove adibirei alla pattumiera tutto Baricco.
Perché è vero che senza idee non si scrivono romanzi, ma è ancora più vero che senza stile non si fa dell’arte, ma solo della scrittura. Guarda Tolkien, per prenderne uno che, rara avis, piace ad entrambi: pensa a cosa sarebbero le saghe tolkieniane scritte con lo stile delle sceneggiature dei Puffi! Pensa a quanti imitatori patetici, a quanti inadeguati raccontatori di favolette pseudoceltiche, similmedievali, fintoarcane, affliggono ed affollano le librerie, con le loro spade magiche, i loro segreti, i draghi e gli elfi: cosa crea quella vertiginosa sensazione di minorità che li divide dal maestro de Il Signore degli Anelli se non la mancanza di una formidabile volontà stilistica?

Questo e non altro voglio significare: che viviamo in tempi in cui l’orgia della comunicazione impone di scrivere e di raccontare. Ma gli strumenti latitano: i talenti languono. Lo stile manca. E manca perchè è proprio la forma, paradossalmente, l’elemento della scrittura che più risente della decadenza dei costumi: è la forma che necessita di tradizione e di scuola, di faticosa e lunga applicazione. La nemica è la fretta: la necessità di scrivere tanto e di venderlo subito. Tanto è vero che il tuo romanzo, formalmente più bello, è quello che più fatica a trovare sbocchi editoriali: il che non è affatto casuale.
Dammi retta, Gabriele: lo so che il lampo creativo affascina di più. Il vero demiurgo, però, quello che rimane nel tempo, non può che prendere le mosse dai caratteri più accademicamente formali, per inventare uno stile nuovo e sicuro. Il suo: che dopo qualche secolo diverrà, a sua volta, accademia. Chi si ricorderà, fra trent’anni, di Baricco?
At zalùt.
Marco


E no, caro Marco: i grandi narratori lasciano parlare l’avventura. È la storia, ragazzi! Non quei litri d’inchiostro con cui si sbrodolano tanti scrittori che usano la forma romanzo per farci la morale (o, va da sé, l’antimorale) e ci ammanniscono quei tomi illeggibili che piacciono tanto ai Re-censori. Quando apro un libro, invece, io voglio salire in carrozza e scendere solo quando ho finito l’ultima riga… sai, quando alzi gli occhi dalla pagina e, per qualche meraviglioso istante, ti guardi attorno senza capire dove sei? Ecco, questo voglio da un romanzo. Perché dovrei tafazzarmi con (sia pur poche) pagine di una trama scelta a bella posta per mostrare un bello scrivere?

Sarà pur vero che Stephen King è un autore fluviale che alluviona prima di arrivare al mare, ma la sua è tutta acqua che fa girare ruote di mulino: sono ben poche le gocce che vanno sprecate. Passaggi apparentemente inutili che riempiono pagine intere (apparentemente emendabili) tornano infine a incastrarsi in quel mosaico di cui anche tu parli, così da riempire spazi altrimenti irraggiungibili.
Prendi It: milleduecentotrentotto pagine, un mattone grosso così che rileggo periodicamente. Perché? Intanto perché mi piace tanto e già tanto basta. Ma soprattutto perché è scritto talmente bene che riesce a farti dimenticare che stai leggendo. Perché ci sono stili che soltanto a una lettura distratta possono apparire facili… ci sono leggerezze che, viceversa, sono raggiungibili solo attraverso uno studio matto. Ci sono modi di scrivere - per parlar chiari - che sulla pagina non lasciano orme, né tracce, né ditate… nessun segnale, insomma, che rimanga lì a dirti “Ehi, guarda che roba! Sono o non sono un grande scrittore?”.

Dici delle descrizioni minute dei vari Follet o Forsyte, ma mi hai forse mai sentito parlar di loro o visto leggere un romanzo di uno dei due? Quella è la narrativa un tanto al chilo di cui parli. Ma non è il caso di King o - per fare un altro nome - di Dennis Lehane. Ebbene sì, ho citato un altro yankee. Ma l’uno e l’altro hanno una lucidità, nell’osservare il Sogno Americano, che li avvicina a noi più di quanto possa apparire in prima battuta. Perché mostrandoci la dolce provincia americana, tra skate, pop corn, cinema e viali alberati, riescono addirittura a farci sognare quei luoghi. Ma poi, dietro il sipario di quell’America dorata, svelano i mille piccoli mali quotidiani che infangano quell’oro… E il bello è che non trasformano il sogno in un incubo vischioso: la bellezza resta, ma è proprio questo che rende infinitamente più spaventosi gli angoli bui che, forse, altrove sarebbero meno oscuri, magari solo per minor contrasto. È quando, come avverte Antonio Faeti, «si scopre che l’inferno e il paradiso appartengono allo stesso condominio». È quella stessa “America amara” di cui parlavano Emilio Cecchi e gli altri giovani intellettuali fascisti degli anni Trenta.
Romanzi di questo tipo, io sono felice di leggerli, mentre le storie dei tuoi Gadda e compagnia cantante sono corse a ostacoli, gymkane da superare con le scarpe affondate nel fango… Ma non perché uno non capisce: il fatto è che ti accorgi di leggere frasi scritte da qualcuno. Bada bene: lo stesso fastidio lo provo quando una bella storia viene scritta con i piedi! Perché qui non si tratta di scegliere tra scrivere bene una storia così così o inventare una storia bellissima scrivendola male… Ma scrivere bene non significa fare i narcisi per specchiarsi in ogni pagina: lo scrittore deve saper scomparire. Solo così gli accordi diventano la musica di cui parlavi, altrimenti l’armonia viene sacrificata al virtuosismo.
Parli di Tolkien come esempio di grandezza stilistica… ma il punto è proprio questo: nelle storie come Il Signore degli Anelli ti ci puoi immergere e dimenticare che dietro tutte quelle parole una in fila all’altra c’è un autore che le ha messe insieme. Con scrittori come lui, la purezza della forma risuona senza salire sul palcoscenico, è… come dire… un’orchestra che suona Rhapsody in Blue mentre Gary Cooper prende per mano Barbara Stanwyck, ma la musica che riempie la scena è in sottofondo e tu aspetti soltanto che lui baci lei. Punto. Lo stile raffinato di Tolkien rende la storia più credibile, certo, ma non ti soffermi a dire “mamma santa, quanto scrive bene!”, perché l’unica cosa che vuoi è andare avanti nell’avventura insieme a Frodo & C.
Insomma, come diceva Nils Liedholm, la padronanza dei fondamentali è necessaria, ma te lo ricordi Chiarugi? Era un fenomeno del dribbling, però finiva quasi sempre per attorcigliarsi su se stesso e perdeva la palla. Per restare nell’allegoria calcistica, Totti è stilisticamente eccellente, ma più di tanti altri fenomeni ha proprio quel “lampo creativo” che gli consente di stare una spanna sopra gli altri e fare della sua squadra uno squadrone.
Gabriele

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