mercoledì 10 dicembre 2008

Intervista ad Angelo Branduardi

Branduardi, un antimoderno
che si diverte ancora


«La tradizione e la cognizione del proprio passato
sono assolutamente necessarie alla cognizione del presente
e a maggior ragione del futuro. Questo vale per la musica
e vale per qualsiasi altra forma della cultura umana»


di Gabriele Marconi



Angelo Branduardi è un caso unico in Italia, per il tipo di musica che ha portato avanti e, soprattutto, perché la sua musica ha avuto così vasto successo in un’epoca in cui stava per esplodere il ciclone punk. Nel 1974, infatti, esce il suo primo 33 giri, mentre negli Stati Uniti nascevano i Ramones e in Inghilterra Malcom McLaren si apprestava a “partorire” i Sex Pistols. Branduardi, invece, sceglie di seguire non la moda bensì la sua sensibilità, che guarda decisamente all’antico. Certo, la Francia aveva ad esempio Alain Stivell; e il mondo celtico, Irlanda in primis, aveva una lunga storia di folk tradizionale con grande seguito di pubblico. Per loro, però, c’era appunto quel forte legame popolare della musica che suonavano e cantavano, un legame quasi ininterrotto e saldato da feste che, spesso, corrispondevano a diffuse rivendicazioni identitarie. In Italia non esisteva niente del genere e il genere fu inventato da Branduardi. E mai più imitato…
Perché, proprio in un momento in cui si correva in avanti, ha voluto “tornare indietro”?
Sinceramente non so dare una risposta. Molto spesso il musicista nasce con un “naso” che non si è scelto, con una musicalità che non si è scelta. Io ho fatto normali studi di conservatorio, perciò sono partito dalla musica barocca, la più antica che viene insegnata in conservatorio. Niente che facesse riferimento alle radici della musica antica. Certe cose sono venute dopo, per mio gusto personale e anche per l’incontro con un personaggio molto importante, Diego Carpitella, morto qualche anno fa, che è stato probabilmente uno dei più grandi musicologi del ’900, oltre che straordinario esperto di musica sarda, e che mi onorava della sua stima e della sua amicizia. Ho cominciato ad intuire la crisi che la musica occidentale (crisi che ha addirittura una data precisa: quella del famoso Tristan Accord, ossia l’Accordo di Tristano, di Wagner) ha portato molti artisti, autori sia colti che non, a guardare indietro, prima del grande sviluppo della musica occidentale, quando venne inventata la musica verticale, cioè il “do maggiore”, cioè l’armonia. Ecco quindi a livello tecnico perché io sono tornato indietro.
Un po’ come i preraffaelliti per la pittura…
Un po’ sì. Ma questo lo possiamo registrare ora, a livello di logica. C’è poi un livello di “pancia”, che è molto più importante, per cui quando ho sentito quella musica ho trovato che facesse parte di me. Semplicemente, mi piaceva in una maniera straordinaria.
Cos’è che non le piaceva della musica moderna?
Penso in tutta franchezza che la musica abbia dimenticato le proprie radici, le proprie tradizioni… Il nostro mondo ha sostituito la musica come fatto storico, che accompagnava ogni momento della vita dell’uomo, con l’arte per l’arte, che è una cosa bella, niente da dire, ma in un certo senso fine a se stessa. La musica extraeuropea (e la nostra antica) non scinde mai la musica da quello a cui la musica serve: c’è la musica per nascere, per sposarsi, per festeggiare il raccolto… e quella per morire. In Africa, ad esempio, a nessuno verrebbe mai in mente di andare a sentire una messa da requiem se non c’è un morto. Queste considerazioni mi hanno convinto della necessità di tornare a guardare indietro. La tradizione e la cognizione del proprio passato sono assolutamente necessarie alla cognizione del presente e a maggior ragione del futuro. Questo vale per la musica e vale per qualsiasi altra forma della cultura umana.
L’ha sempre pensato?
Sì, sono una sorta di antimoderno, per certi versi.
Perché nessuno ha seguito la strada che lei aveva aperto?
Be’, il fatto che nessuno mi abbia imitato lo capisco, perché io sono “al limite” e a me si concedono certe cose che fatte da altri verrebbero probabilmente considerate grottesche e ridicole. Io stesso, lo ammetto (e una certa parte della critica lo ha rilevato), sfioro a tratti dei lati per i quali vengo preso in giro, anche bonariamente, come fa il mio amico Davide Riondino quando canta La canzone della foca, piuttosto che altre… Però c’è stato un giornalista che ha detto una cosa giusta su di me: «Branduardi è come l’aglio, un gusto unico e inconfondibile che piace o fa schifo». Questa è la migliore definizione della mia musica che abbia mai sentito. È difficilissimo trovare una cosa che assomigli all’aglio, no? Ed evidentemente è più difficile ancora trovare qualche musicista disposto ad essere paragonato all’aglio…
Pensa che negli anni Settanta, quando ha cominciato a incidere dischi, ci fosse un pubblico più sensibile a questo tipo di musica rispetto al pubblico di oggi?
In realtà, quando portai il nastro finito di Alla fiera dell’Est alle case discografiche ci fu addirittura chi si mise a ridere, perché era il momento “dell’impegno” e di parole d’ordine molto precise, mentre quella canzone era a sfondo religioso, spirituale… cosa a cui la musica per me è legatissima. Il mio maestro diceva che il talento senza il carattere non serve a niente, ed io, ammesso che avessi talento, di sicuro avevo originalità e carattere. Quindi riuscii ad impormi anche se ero diverso dagli altri. Oggi, invece, mi rendo conto che nonostante la diffusione clamorosa dei media, paradossalmente l’originalità, che dovrebbe pagare di più aiutando ad uscire dalla massa, paga di meno.
Come mai?
Perché al tempo in cui cominciavo io, parlando brutalmente, venivano dati cinque anni di tempo: si diceva “col primo album si perde, col secondo si va alla pari, col terzo si guadagna”. Oggi ci sono solo due possibilità: la prima e l’ultima. Per cui posso ancora giocare in scioltezza i tempi supplementari e fare anche qualche golden goal, ma sicuramente se dovessi cominciare adesso sarebbe molto più difficile. In radio i tempi dei brani devono rispettare dei canoni precisi, che alla fine consegnano all’ascolto delle orecchie umane dei prodotti tutti simili, dai quali è inutile pretendere l’originalità. Viceversa, l’originalità ha bisogno di tempo per coltivarsi, non cresce dal nulla… solo i geni come Bach crescono dal deserto, mentre noi musicisti popolari abbiamo bisogno di tempo, di assorbire un’aria che magari sia ricca moralmente, razionalmente e soprattutto irrazionalmente.
Uno dei suoi ultimi lavori è stato la Lauda di Francesco. Come si è trovato a dover esprimere in musica un componimento interno a una religione definita come il cattolicesimo?
Molto bene! Io mica sono contrario alle religioni. Non ho mai detto se sono o no praticante, semplicemente perché la ritengo una cosa molto privata. Ma ho ben presenti le radici giudaico-cristiane del nostro vivere. Vede, ci ho messo mesi prima di dire di sì ai francescani, perché ritenevo la cosa un po’ al di là delle mie possibilità, non perché fosse lontana dalla mia sensibilità o dalle mie convinzioni. Poi c’è da fare una netta distinzione tra la musica spirituale - perché tutta la musica lo è - e la musica devozionale, che a volte purtroppo è molto brutta… come la famosa “messa beat” e altre cose scritte adesso, che non sono ispirate da Dio. E quindi io non volevo fare una cosa del genere.
Come ha reagito alla richiesta dei francescani?
Ho chiesto: «Ma perché lo proponete a me che sono un peccatore?». E padre Paolo Fiasconaro, che è diventato un mio carissimo amico, ha risposto: «Lo chiediamo a te perché Dio sceglie sempre i peggiori», che è una frase geniale, piena di humor francescano. In Francesco ho visto tre cose, ho visto il santo, ho visto l’uomo e ho visto l’artista… perché molto spesso la gente dimentica, ma è scritto in tutte le antologie delle scuole medie, che il primo poeta della letteratura italiana è Francesco d’Assisi e la prima poesia della nascente letteratura italiana è il Cantico delle Creature. Questo l’ho tenuto ben presente. Quindi è stata un’operazione sì divulgativa ed evangelizzatrice come dicono i francescani, ma anche rigorosissima, nel senso che non mi sono inventato niente, è assolutamente aderente alle fonti francescane.
Tra le sue canzoni “storiche”, le mie preferite sono Confessioni di un malandrino e Il Signore di Baux, che rappresentano due aspetti della musica di un bardo: il sentimento, sia d’amore che di memoria, e la marzialità.
E anche l’esotericità… La leggenda racconta che i signori di Baux, sparirono dal castello in una sola notte, quindi la canzone è carica anche di potere emotivo, emozionale. La leggenda di Baux tocca le corde più nascoste, ecco perché in un certo senso fa venire il brivido.
Certe musiche riescono a toccare corde completamente opposte, spesso presenti in una stessa persona. Come è possibile, per un musicista, riuscire a rendere al meglio sentimenti tanto diversi?
Basta abbandonarsi. A differenza del mio amico Ennio Morricone, che ogni giorno si applica alla scrittura per tre o quattro ore, io non cerco: mi lascio un po’ trovare… Come si suol dire, non sei tu che suoni il violino ma è il violino che suona te: quindi lascio che arrivi la cosa e poi va da sé, è un mistero che voglio lasciare tale. Morricone dice che il 10 per cento è ispirazione e il 90 per cento è traspirazione, certo, ma quel 10 per cento è indispensabile per creare l’altro 90, sennò diventa musica puramente accademica, che non serve a nulla. In realtà io… con il piacere anche un po’ di tormento ed estasi, senza retorica… lascio che arrivi quello che deve arrivare, poi lo lavoro e magari lo getto, perché sono uno molto cattivo con me stesso… I kill my baby, come dicono gli americani… oppure lo accetto e allora vado avanti. Comunque monto e smonto il giocattolo tante volte prima di renderlo pubblico.
È un po’ l’immagine che il pubblico ha dell’artista…
Allora è quella giusta.
Negli ultimi tempi, grazie al cinema con i film su Il Signore degli Anelli, c’è stata una grande riscoperta di Tolkien…
Credo di essere stato uno dei primi a leggerlo in Italia.
… e come mai Branduardi non ha mai inciso una canzone ispirata da Tolkien? D’altra parte sarebbe un luogo ideale per le sue ispirazioni…
Ci ho provato con alcuni testi, scritti da Tolkien come canzoni, che erano già state musicate, secondo me male. Ho qui da qualche parte gli spartiti… ci ho provato a lavorare perché la musica era scritta da un signore del quale non ricordo il nome e non mi pareva bella, ma non sono mai arrivato a capo di nulla. Quindi confesso di non essere stato in grado. Farmi ispirare da un’opera letteraria così corposa, per comporre canzoni con testi scritti da me, mi avrebbe dato la sensazione di tradirla. Avrei voluto mettere in musica le sue parole, ma non ci sono riuscito D’altronde quando ho fatto la Lauda, non mi sono “ispirato a” San Francesco, ma ho ripreso le sue fonti.
Un cantante di successo può avere spesso molta influenza sui giovani. Ha mai avuto la tentazione di “lanciare messaggi” o esprimere una presa di posizione, come fanno molti suoi colleghi?
No, non mi ha mai neppure sfiorato la mente. Io ritengo la musica uno sguardo gettato al di là della porta chiusa: la musica è l’oltre o, senza essere retorico, il trascendente. Per me non è mai la realtà (per altri lo è), non corrisponde alla descrizione pratica di una realtà sociale, politica, economica… È Picasso, è la faccia con tre occhi… è uno sguardo gettato al di là del visibile. Quindi non mi interessa ciò che è qui ed ora, insomma, perché la musica è da un’altra parte ed estranea al momento. E poi non andrei mai a profetizzare… Vede, i musicisti sono persone un po’ border line, è il caso che siano loro ad essere presi per mano e portati da qualche parte. Spesso hanno bisogno che gli si insegni, molto più che viceversa.
Questo per il Branduardi artista. E per il Branduardi cittadino?
Be’, seguo molto quello che succede in Italia e nel mondo, mi documento, ho le mie idee, molto precise ma… posso dirle i giornali che leggo: il Corriere della Sera e il Foglio. Però non mi troverà mai a far casino. Perché, vede, spesso l’artista e l’uomo non coincidono. Infatti chi è inquieto cerca la pace e chi è in pace cerca l’inquietudine. Quindi diffidi molto di me che cerco la pace! Perché significa che sono un artista e un uomo inquieto.

lunedì 17 novembre 2008

LE INCHIESTE SARDE DI NICOLA VERDE


Nicola Verde
Le segrete vie del maestrale

Hobby & Work - pp. 314

«Cheret andare a fundu, finzas a sa morte secada», ossia, in barbaricino, bisogna andare a fondo, fino a tagliare la morte. È una citazione dall’ultimo libro di Nicola Verde, ma anche del romanzo che l’ha fatto conoscere agli appassionati di giallo e noir, appunto Sa morte secada.
Già, perché l’ambientazione scelta per le storie di Verde è la Sardegna, per la precisione la Sardegna di fine anni ’60, «un pezzo di luna caduto nel Mediterraneo», come scrisse a suo tempo un sardo illustre, Giuseppe Dessì. Protagonista è il maresciallo Carmine Dioguardi, trasferito dalla natia campania in quella terra che i suoi pregiudizi immaginano piena di «selvaggi». Ma grazie alla sua voglia di capire comincia piano piano a comprendere questa cultura che non gli appartiene, a cavallo tra gli usi arcaici e una modernità che arriva portando qualche speranza e molta diffidenza. Una terra dove il mito parla ancora e, per decifrare i suoi enigmi, Dioguardi trova sempre un saggio, una strega o un’anima pura che gli facciano da tramite. Ma non sono racconti fantastici (anche se Nicola Verde con quelli ha cominciato, cioè con l’horror puro) bensì polizieschi di grande qualità: e di qualità italiana. Italiana la scrittura, il linguaggio (anzi, i linguaggi, visto che siamo in Sardegna) e la struttura, oltre che l’ambientazione. Nei racconti che compongono la raccolta Le segrete vie del maestrale, i crimini rasentano spesso la brutalità più feroce, elementare come la vita dei pastori e della gente che vive quella terra arcaica e cerca di capire i tempi nuovi che piano piano arrivano. E in quell’equilibrio delicatissimo, il maresciallo Dioguardi cerca di muoversi con delicatezza, ma senza fermarsi mai di fronte alle infinite difficoltà che può trovare uno straniero che ha addirittura bisogno di qualcuno che gli traduca le deposizioni dei rari testimoni.
Piano piano arriverà a distinguere la benevola ironia dal sarcasmo malevolo, l’indifferenza dalla saggezza di quella terra bellissima e arcana. Una terra ffascinante, per la cultura millenaria e magica, ma allo stesso tempo inquietante, ferina come la legge del lupo e dell’agnello. Ne è affascinato ma non si lascia affascinare e cerca di andare sempre a fondo (finzas a sa morte secada…), per assicurare i colpevoli alla giustizia.
Nicola Verde, con questo terzo libro di “indagini sarde”, si conferma tra i migliori scrittori italiani, non solo di genere, uno dei pochi che “si fa leggere” senza fuochi d’artificio e fa riflettere senza annoiare.
gm
(da AREA n. 140, novembre 2008)

mercoledì 12 novembre 2008

EDITORIA NON CONFORME A BIELLA

BIELLA: venerdì 28 novembre, ore 21
Museo del territorio (via Quintino Sella 59):
IO NON SCORDO





mercoledì 5 novembre 2008

TROVATO, GRAZIE LUCA, hai vinto

Grazie alle indicazioni di Luca, ho trovato il luogo della foto proprio sulla costiera amalfitana: è un hotel. Perciò, Luca, il romanzo è per te: mandami una mail e te lo faccio avere.

martedì 7 ottobre 2008

"IL REGNO NASCOSTO" SU "FANTASY MAGAZINE"

Potete leggere una lunga intervista agli autori del romanzo cliccando qui:
http://www.fantasymagazine.it/notizie/9408/

BOTTA & RISPOSTA - QUANTO È GRANDE LA CITTÀ IDEALE?

di Marco Cimmino e Gabriele Marconi

Prima erano Maccari e Bontempelli a litigare tra Strapaese e Stracittà. Oggi, in periodi di magra,
la polemica ritorna con questo più semplice faccia a faccia sul vivere quotidiano, se sia migliore
nella metropoli o nella provincia felix

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E no, caro Gabriele: questa volta non mi freghi! Non vorrai mettere davvero la qualità della vita di una metropoli convulsa e incasinata come Roma o Milano con quella di una piccola città di provincia? «La noia e il tedio a morte del vivere in provincia…» cantava Guccini: il che dà la garanzia che si tratti di cazzata sesquipedale.
La piccola città è casa e campanile, umanità e campagna. Se ci fai caso, da qualche decennio in qua, tutto il meglio dell’Italia viene dalla periferia e tutto il peggio dal centro: lo si diceva con Morganti, grande provinciale, che non si maschererebbe mai da cittadino e non scambierebbe mai la Marecchia con il Tevere o l’Olona.
La metropoli è corruttrice: ti lusinga, ti risucchia, ti trasforma: dopo sei mesi a Roma, un varesotto già comincia a dire famose du’ spaghi! È la potenza del numero. Certo, ci mancherebbe: nella grande città trovi tutto. Negozi aperti di notte e ristoranti maghrebini, sante e cortigiane per tutti i gusti, luci sempre accese e porte sempre aperte. Bella roba! Da noi, nel fondo della più provinciale provincia, la notte si dorme, perché al mattino si lavora! Però, è nella periferia dell’impero che la gente ha ancora il tempo di pensare, e guarda le piroette della politica, della moda, del cinema, vedendole per quel che sono: piroette, appunto, e nulla più. Il Bepi, seduto al bar, con davanti il giornale, commenta: «Non ci sono più gli uomini di una volta!»; che sarà anche un luogo comune, ma è la pura verità. Verità di provincia, certo, ma sempre meglio delle panzane che escono dalle redazioni e dalle sedi di partito, dove siede e si ingrassa un potere flaccido, autoreferenziale, alieno alla realtà del Paese.
La realtà siamo noi, caro Gabriele: non sono gli upper ten thousands, i felici pochi della tua bella canzone. La realtà di questa poverissima Patria nostra sono tutti gli altri: i milioni di esseri umani che fanno un’altra vita, che pagano la benzina e il biglietto del cinematografo, che vanno avanti e indietro tra casa e lavoro, che mettono al mondo figli e non corrono dietro alle soubrette. La vera Italia è questa, provinciale, banale, meravigliosamente normale: quella per cui la televisione è un passatempo, non un posto dove andare a parlare. Ricordo una conferenza che si tenne a Bergamo, parecchi anni fa: tra i relatori c’era quel geniaccio di Stenio Solinas, che, per il suo caratteristico amor di paradosso, sostenne ultra rationem la causa del centralismo cultural-politico. Voialtri provinciali, disse in definitiva, non contate una sega… potete pure discutere, studiare, applicarvi, ma il potere conosce solo due luoghi, in Italia: Roma e Milano. Perciò, potete pure finirla di organizzare convegni e pubblici dibattiti, perché, tanto, le cose si decidono altrove. Il che corrisponde a pura verità: la stessa persona, a Vigevano o a Milano, svolgerebbe ruoli diversi, avrebbe un diverso peso, indosserebbe abiti diversi, parlerebbe diversamente. In altre parole, a Milano farebbe carriera. Solo che il punto non è questo: a Roma si fa carriera? Si vive svelti? Si esce a cena col ministro tale e col senatore talaltro? Un bel chissenefrega non riesce ad esprimere tutto il mio disinteresse per la cosa: rendo l’idea?


A Bergamo, vado al lavoro in bicicletta, parcheggio sotto casa e mi accontento di essere il padrone assoluto del mio minuscolo impero, che comincia dall’ingresso e si conclude in camera da letto. A Milano o a Roma mi sentirei un pesce fuor d’acqua, un topo di campagna: perderei tutte le mani di quella partita a poker che è la vita.
Ognuno dovrebbe seguire il proprio destino: maestri di Vigevano e professori bergamaschi (facendo le corna…). E non citarmi Chicco Testa, che è un bergamasco sui generis: Testa non fa testo. Non si è mai visto un bergamasco che faccia una supercarriera senza ragione e che parli di tutto senza avere la minima idea di quel che si sta dicendo: è l’eccezione che conferma la regola… Oppure, magari anch’io diventerei consigliere culturale di qualche papaverone di partito, chessò: mi metterei in tasca dei bei denari, a forza di consulenze, sinecure e regalie. E poi? Poi mi infoiberei in un traffico che ti succhia il cervello, tutti i giorni, tutto il giorno: parcheggerei in tripla fila, ci metterei due ore ad arrivare a un appuntamento e, comunque, arriverei in ritardo. E, quando mi venisse voglia di vedere la neve, dovrei allungare il collo dall’ultimo piano, per ammirare l’azzurra lontananza del Soratte (vide ut alta…) o del Monte Rosa: remoti miraggi di libertà e di purezza.
No, grazie, caro Gabriele: ci vuole un’altra vita! Già odio entrare nei flussi umani di quest’epoca di pazzi: l’esodo, il rientro, la partita, l’ingorgo, l’outlet, il centro commerciale, il fitness, il diavolo che se li porti tutti quanti! Figurati se potrei vivere in un posto in cui l’ingorgo è la regola, la partita paralizza un milione di persone, la domenica sera ci sono venti chilometri di coda per tornare a casa…


La metropoli è labirinto e confusione: Walter Benjamin non era poi così fesso. Oppure è divisa in tanti microvillaggi: vivi nel tuo quartiere, dove conosci tutti e tutti ti conoscono: un mondo alla Pratolini, con cinquant’anni di ritardo. La Garbatella o Quarto Oggiaro come via del Corno. Come vivere assediati. Sai che bel vantaggio: un paese circondato da semafori e tangenziali, anziché da campagna e collina! Tanto è vero che un sacco di gente ha scoperto il pendolarismo di lusso: partono dai paesi dell’hinterland, con i loro suv e le loro station-wagon, vengono in centro a lavorare e, a sera, se ne tornano in campagna, nelle loro villette a schiera, pietra a vista, ampia tavernetta e doppio box, giardino di proprietà. Peccato che questo fare avantindrè si mangi dalle tre alle quattro ore della loro vita, ogni giorno: facendo due conticini, ogni anno questi giovani manager, questi medio borghesi su quattro ruote, si fumano cinque settimane di vita a premere frizioni e ascoltare autoradio, in coda. Sarebbe un anno ogni dieci… Sono quelli che amano Chiambretti, i romanzi da segaioli, con tutte quelle vite complicate da mille considerazioni superflue, le vacanze a Los Roques o in Patagonia: fanno così perché vorrei vedere te, quaranta giorni all’anno chiuso in macchina. Poi dicono che la gente rincoglionisce!
Invece, la provincia è rasserenante: c’è il sindaco tangentaro, l’assessore con la moglie zoccola, piccoli furti e piccoli imbrogli. Ci sono le commendatizie per far assumere in banca il figlio che non ha voglia di studiare, i salotti buoni e quelli così così, la gente che dice ancora: “Lei non sa chi sono io!”. A Roma non può accadere, perché tutti pensano di essere un pezzo talmente grosso da obbligare tutti gli altri a sapere chi è: anche l’ultimo stronzo, eletto in Parlamento perché ha una sorella gnocca che piaceva al capo corrente del suo partito.
Credimi, Gabriele: il futuro è provinciale. Con la televisione pay per view, i politicanti milanesromani non se li filerà più nessuno: chi vuoi che paghi per conoscere le opinioni di D’Alema o di Bonaiuti? Sarà una mutazione epocale: torneranno le serate in famiglia, a vedere Tutti pazzi per Mary. E i bradipi come me, quelli che hanno tutto nel raggio di un chilometro da casa, trionferanno.
Noi provinciali siamo inequivocabilmente cocciuti, siamo i Bartleby contemporanei: anziché “I prefer not too!”, ripetiamo, come un’ecolalia “Casa dolce casa”. E la nostra casa è anche la nostra città: una città grande la metà di un municipio romano. Qui da noi, se un figlio vuole fare il liceo classico, sale due scalette e ci arriva: se un ragazzino di Sesto San Giovanni si iscrive al “Parini”, gli tocca prendere casa in centro o alzarsi alle quattro del mattino! Vita, vita: è la nostra vita, questa…
La metropoli, ormai, è il simbolo della cancrena che corrode la nostra comunità umana: una sterminata massa di persone, tutte sole, tutte incazzate, tutte disperatamente concentrate nei propri itinerari, nella propria lugubre esistenza, nel loro perenne circuitare. E, allora, bisogna divertirsi, quando si può: tac, scatta l’ora dell’aperitivo, e migliaia di persone corrono, per assicurarsi un tavolino, uno sgabello, un angoletto. Perfino una delle più rilassanti abitudini italiane si trasforma in una specie di pratica agonistica, fastidiosamente obbligativa. La grande città: vista dall’alto è un deserto di lucine accese. Ti domandi cosa ci sarà dietro ogni finestrina, dentro quelle case, che ti sembrano tutte uguali: ti chiedi che vita facciamo e cosa stiamo diventando. La provincia è una gran mamma, dalle tette accoglienti: è una terra dello spirito, l’eterno ritorno, il rifugio e il castello. Lì, i suoni della metropoli arrivano ovattati, depotenziati: ci puoi anche far su una bella risata. “Sai, Fini ha detto così e cosà!”, “Ah davvero? Vuoi un altro po’ di birra? Salute!”.
Siamo così, noi provinciali: disinformati, disinteressati, anche un tantino menefreghisti. Ma dimmi tu, caro Gabriele, se valga la pena di informarsi, quando l’informazione è quasi tutta inutile o gonfiata. Dimmi se serva interessarsi a cose sulle quali non abbiamo la minima voce in capitolo. Dimmi se, piuttosto che farsi venire il fegato come un pallone, non sia meglio essere un po’ menefreghisti: portare fuori il cane, fare due chiacchiere col vicino, andare a sciare. Perché la metropoli, vista da quaggiù, è soltanto un formicaio. E tutti i grand’uomini che la affollano sono soltanto puntini, lontanissimi. Ti affacci al balcone, e vedi il sole scendere dietro i colli, con una fantasmagoria di rossi, di verdi, di rosa, di azzurri, e il profilo nero dei cipressi: casa, pensi, casa mia! Non ci saranno archi e colonne, ma ci sono le buone, vecchie, care pietre che hai calpestato da quando eri piccolo piccolo: e il mondo ti sembra tutto lì, minimo, ma caldo e pulito.
Perché noi, gente di provincia, alla fine, preferiamo star qui, nel nostro orticello, con il droghiere e il giornalaio che non ti chiamano “dotto’”, a meno che non sappiano che fai il medico, e, anche in quel caso, non sono usi all’apocope. Perché la periferia dell’Italia è questo: un posto normale per gente normale. Senza ricchi premi e cotillon, ma, almeno, un posto vero.
Non voglio mica dire che Roma o Milano non siano posti veri, intendiamoci: solo che hanno perso la loro anima. C’è la canzone di Marcello che è meravigliosa, commovente: ma quella non è Roma, è un sogno ad occhi aperti. Certi luoghi si sono, per così dire, diluiti: troppa gente, troppi forestieri, troppe cose insieme. Dov’è quella Roma profumata, un poco sguaiata, in falpalà, di Trilussa? Dove la Milano sensata e sanguigna di Carlin Porta? Dov’è che si nascondono Meo del Cacchio e Giovannin Bongee? Cosa è rimasto delle metropoli, al di là delle insegne luminose, delle fermate della metro, dei raccordi anulari? Sapessi quanto le ho amate, le grandi città, quando me le immaginavo soltanto: la Parigi di Maupassant, la Londra di Wodehouse, la Milano di De Marchi e la Roma di Pascarella! Ma oggi, in quest’epoca meravigliosa di globalismo e di benessere, cosa distingue Roma e Milano da Pechino, Vancouver, Berlino? Non intendo il clima, né i monumenti: dico dello spirito delle città, della loro intima personalità. Le grandi città, ormai, sono tutte uguali e, quel che è peggio, anche le cittadine di provincia si sono avviate in questa direzione: scimmiottano le metropoli, si truccano, si dipingono, si riempiono di obbrobri architettonici, progettati da dei Renzo Piano in diciottesimo, per ricreare delle Potsdamer Platz grottesche, a Brescia, a Treviso, a Pordenone.
Lo vedi Gabriele: il cancro dilaga, dal centro verso le periferie dell’impero. Bisognerebbe capirlo e intervenire: riprovincializzare le metropoli, rivalutare il villaggio, il comune, la polis. Sì, figurati…
Comunque, per ora, resistiamo impavidi, sulle nostre barricate di polenta taragna, armati della trisa per mestare nel paiolo. Domani è un altro giorno: una volta o l’altra dovrò cambiare automobile, e chissà che non mi compri un suv! E pensare che Roma è la città più bella del mondo! Che peccato il progresso…
Alla prossima.


E no, caro Marco: sarà perché mi prendo la libertà di esser io a risponderti (e arrivando secondo posso aggiustare il tiro), ma a fregarti ci hai pensato da solo in partenza! Tutto il meglio dalla periferia, dici? Anzi “dite”, giacché ne convenivi col Morganti? Ah! Bella questa: allora Cogne è un quartiere di Milano, Niscemi un rione al centro di Roma e Manfredonia fa cinque milioni di abitanti… Non dico che anche in una metropoli non possa accadere che una mamma ammazzi il proprio figlio, un branco massacri e uccida una ragazzina dopo averci fatto sesso o un’altra ragazzina venga assassinata a pietrate alla fine di una storiaccia infame. Ma le esplosioni di follia e il degrado più abominevole, negli ultimi anni, a me pare più facile trovarli nei paeselli che tu dici del bel vivere.
È che questa mania della fuga dalle città per tornare alla campagna sta facendo più danni di un piccolo tsunami. Perché nel silenzio e nella solitudine le depressioni s’ingigantiscono.
Certo, non è tutta così la provincia, anzi! Ma nemmeno è quel paradiso dei buoni sentimenti che vorresti convincermi a credere. E dimmi poi perché mai in città non dovrebbero esserci quei simpaticoni dei quali vanti la frequentazione nella tua Bergamo o dove vuoi tu…
Il problema vostro… dico di voi provinciali… è che pensate davvero che la città sia quella che appare in televisione: ma ti pare che a Roma o a Milano tutti escano (o vogliano uscire) a cena con quest’assessore o quel ministro? (E che quell’assessore o quel ministro debbano per forza essere malvagi?). O che il desiderio di tutti sia diventare consigliere e/o manutengolo di qualche papaverone? L’idea che avete della città è così radicata (proprio come le vecchie perle di saggezza popolare…) che nulla potrebbe mai sbiadire l’immagine così come l’avete costruita: in città si fa così e cosà, sono tutti così e cosà… tutti corrono (a Milano) tutti poltriscono (a Roma) e tutti sono avidi e arrivisti (sia a Milano che a Roma).
Perdonami, Marco, ma il tuo ragionamento sfiora quello del “Milanese” che spiega ai fratelli Caponi (Mario Castellani a Totò e Peppino) come ci si deve vestire e comportare a Milano per andare a trovare la Malafemmina…



Ed è vero che a Roma quasi mai trovi quello che dice “lei non sa chi sono io”… è difficile che accada, ma non perché tutti pensino di essere chissà chi, come dici tu: è che ai romani non gliene potrebbe importare di meno di chi sei o dici di essere. Mi viene in mente quella volta in cui zio Renzo, alle prese con un tizio che gli aveva risposto appunto col fatidico «Lei non sa chi sono io», alzò le mani e disse ad alta voce: «Zitti tutti, che adesso ‘sto stronzo ce dice chi è!». Roma è questa, Marco e tu lo sai.
Perché la questione va inquadrata più da vicino, caro mio! Certo che se osservi la città dall’alto, a volo non d’uccello ma d’aereo, vedi un agglomerato informe che avanza verso la campagna come una metastasi. Ma non è così che funziona: anche le grandi città sono formate da tanti piccoli centri - i quartieri - dove il vivere quotidiano è molto più simile a quello del paese di quanto si possa pensare… E infatti sbagli a citare la Garbatella, perché è tutt’altro che un quartiere-dormitorio come Quarto Oggiaro. Ci sono i Brutti Posti, ovvio, come dappertutto, ma di solito i vantaggi superano di gran lunga i difetti. E non sto là a sbattere sul tavolo la briscola e l’assopigliatutto della vita culturale, come farebbe quel dandy d’altri tempi che è Renato Besana, che ti ricorderebbe «la linea perfetta di una Lamborghini Miura, il disegno delle stanze della Torre Velasca o del grattacielo Pirelli» che son tutti frutti cittadini, come cittadina è la nostra civiltà da sempre. No, non voglio infierire con le occasioni culturali che in provincia devi cercarle col lanternino: parlo proprio di vivere sociale, di conoscenze e possibilità d’incontro, per i bambini come per i vecchi, che in città trovano un’assistenza che in provincia se la sognano. E mia figlia per frequentare il classico andrà all’“Orazio”, che sta là in fondo alla strada e che è frequentato da tutti giovani “indigeni”… insomma del quartiere. Poi se c’è qualcuno che, abitando a Centocelle, ha la fregola di iscrivere il figlio al “Mamiani” perché i rivoluzionari di buona famiglia ne parlano tanto bene su La Repubblica e ci fanno i film, be’, fattacci loro!


Insomma io ci vivo bene in città, non sono di quelli che scappano ogni sera in campagna perdendo nel traffico la pace che acquistano nella casetta di provincia. Vedi, le pietre che ho calpestato da bambino, quelle di cui parli, anche loro stanno sempre là nel prato dove giocavo a pallone. Certo, magari qualche punto di vista s’è perso: prima si vedevano i Castelli e arrivava il ponentino, mentre adesso svettano le insegna dell’Ikea e di Leroy Marlin…
Il fatto è, caro Marco, che quel che tu rimpiangi delle città che non ci sono più, è vero per tutto il nostro mondo e il nostro tempo! È vero per la metropoli come per il paesello. È vero al Sud com’è vero al Nord. Fidati, che anche se Trilussa e Carlin Porta potessero tornare in vita oggi stesso, sceglierebbero ancora la loro città, con tutti i difetti antichi e nuovi. Perché quello che fa più danni, il consumismo immorale, è qualcosa che non si ferma ai confini della metropoli, anzi! Arrivo a dire che il cancro edonista fa più danni in provincia, perché i miraggi mostrati in tv, le icone alzate come tanti vitelli d’oro sono più lontani e frustranti che mai: e allora, uno che si compra il bolide e gli occhiali fascianti, dopo aver palestrato e lampadato il corpo, che fa? Si ferma al bar davanti alla chiesa, guarda i vecchi che giocano a carte, le stradicelle buie (ché i paesani operosi dormono presto il sonno dei giusti), si scola quattro o cinque sani bicchierozzi provinciali, dopodiché per vincere la noia si va a schiantare contro la vecchia quercia in fondo alla statale, quella dove si arrampicava da bambino e che, grazie al sano vivere paesano, sta ancora là…
Quello che diceva Konrad Lorenz sul vivere in città, con le case che non a caso diventano appartamenti, con la gente che appunto si “apparta” e non condivide più il vivere sociale, è sacrosanto, come no! Ma è vero tanto più in provincia, ormai, perché è lo spirito comunitario ad essersi spezzato e l’egoismo, allora, mette radici molto più solide nelle casette isolate l’una dall’altra che si trovano in provincia, dove ormai il visitatore serale non viene più salutato come un gradito e sacro ospite come accadeva un tempo, perché oggi, quando fuori è buio e la casa più vicina sta a duecento metri e il commissariato è lontano quattro chilometri, se bussano alla porta la prima reazione è di paura! Non ti aspetti allegri conoscenti ma una banda di nuovi desperados specializzati nelle rapine in villa.
E allora, facendo due più due, mi tengo amatriciana e coda alla vaccinara. E aspetto in un domani migliore, non credendoci più di tanto ma sperandolo da morire. E cercando ancora di volerlo.
Sulla chiosa ti correggo: che peccato questo progresso!
Alla prossima.

lunedì 8 settembre 2008

BOTTA & RISPOSTA - ARWEN VS EOWYN: SACRIFICIO O RIBELLIONE, MA SEMPRE PER AMORE


di Marco Cimmino e Gabriele Marconi
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Quali sono le donne più degne d’essere amate? Quelle che resistono malgrado tutto e tutti,
o quelle che combattono a fronte alta? Quelle che muoiono di dolore per la morte del proprio uomo o quelle che si ribellano alle avversità?


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E no, caro Gabriele: la donna vera, quella che ama
 eroicamente ed eroicamente combatte, non è una specie di virago. Un uomo con le tette e la spada. È, semmai, quella che resiste come una rocca catara: quella che, senza strepiti di buccine, è capace di qualunque sacrificio per l’oggetto del proprio amore. Per capirci, nonostante le evidenti manchevolezze della trasposizione cinematografica, l’eroina del Signore degli Anelli, per me, è Arwen, non Eowyn. Arwen Undòmiel, figlia di Elrond e di Celebrìan, la stella del crepuscolo. Poco importa se sullo schermo è diventata una specie di supergnocca lacrimosa e sbaciucchievole: che mi dici, allora, del sire di Granburrone, che piange di gioia alle nozze della figlia (che, per lui, equivalgono al suo funerale), come un qualunque bottegaio? This is Hollywood, baby…
La storia, invece, ci fornisce esempi a iosa di queste femmine eroiche, che non si dimenticano mai di essere donne e, soprattutto, del fatto che la donna è diversa dall’uomo: né meglio né peggio, ma diversa. Arwen è immortale: è una mezzelfa della Terza Era e, se si recasse nelle terre di Valinor, potrebbe vivere in eterno. Decide di rimanere nella Terra di Mezzo, anche se tutto sembra perduto, anche se le ombre avanzano, sapendo che questo significa rinunciare all’eternità: se questo non è eroismo! Lo fa per amore, ma anche perch
é crede: la sua fede le porta speranza.
È lei la mia prediletta. Io non amo le fanfare, le armature chiassose, i proclami, la volontà invincibile di quelli che, alla fine, se ne restano a casa: ma so riconoscere il coraggio, quando lo vedo. E il coraggio femminile, almeno in letteratura, è soprattutto coraggio resistente: coraggio sostanziale. Da Alcesti alla moglie di Trasea Peto, la tradizione antica è piena di donne di questo conio. Ne prendo una, per tutte: Antigone. La più celebre eroina sofoclea non è una donna che sfida il potere, con parole altisonanti. Appare, anzi, quasi rassegnata: una forza superiore le impone ciò che si accinge a fare. Antigone va alla morte con tranquilla e dolorosa consapevolezza della ineluttabile necessità del suo gesto: seppellire un fratello, secondo la legge del sangue e della pietà. È l’amore, non l’odio che anima la tragedia.
Vero è ben, caro Gabriele, che nell’opera di Sofocle si contrappongono - come sempre nella tragedia greca - due visioni religiose e civili. Ma è altrettanto vero che Antigone è un personaggio completamente eroico e completamente femminile: apparentemente debole e indifesa, ma in realtà più forte della pietra delle mura di Tebe.Credo che l’archetipo sia nato allora: e da allora si sia evoluto e circostanziato, attraverso passaggi, talvolta evidenti, talaltra meno. Indubbiamente, ha molto influenzato questa immagine di eroismo al femminile la lezione cristiana: le martiri, ad esempio, il cui tranquillo senso del dovere si esemplificava sul modello della Madonna. Ecce Ancilla Domini. Però, dammi atto che la letteratura europea ha sempre percepito questa duplicità femminina, su cui noi due, ancora adesso, discutiamo e, anzi, spesso ci ha pure giocato sopra, creando donne di cartapesta, che facessero il verso alle nostre ispiratrici. Tutte le donne della cavalleria rinascimentale, ad esempio, Angelica e Bradamante, Armida e Clorinda, sono prodotti artefatti, artificiali. La vera anima bifronte dell’eroismo femminile è altra. Vediamo qualche esempio europeo.
Il primo nome che mi venga in mente è quello di Aude, moglie di Roland: Alda la bella, che compare in un solo luogo della Chanson più celebre della letteratura mondiale. Un’assoluta comprimaria, che, per solito, non lascia traccia in chi legga la materia di Francia. Invece, Aude esiste: e muore. La sua morte, sintetica al di là del lecito, è l’esatto contrario di quella, cerimoniale e protratta oltre ogni limite, di suo marito, Roland. Di lui conosciamo i
l transito nei dettagli: ce lo recita come un pupo siciliano, dicendoci che adesso muore, che si arrende, che aspetta gli angeli. E gli angeli arrivano, c’è il fervorino dedicato alla spada, che è chiara e lucente: alla moglie nemmeno un cenno. Roland non tollera che il lettore venga distratto dal suo gloriosissimo trapasso. Aude non appare, non recita, non tiene sermoni: muore di dolore quando le dicono che è morto suo marito. Muore d’amore. Tutto ciò che sappiamo di lei è quel che ci dice il poeta: ossia che non sopravvisse al terribile cordoglio. Questo è l’eroismo che amo: un eroismo romanico, non barocco.
Così, caro Gabriele, vedi bene che i miei gusti impossibili mal si accompagnano alle eroine del poema cavalleresco: alle donnone bionde, grandi e grosse, con l’armatura. Le Brandimarte, le Bradamante: Ariosto come Spenser, Boiardo come Tasso, il Faerie Queene e l’Amadigi. Fino alla caricatura meravigliosa del Saavedra: fino a Dulcinea del Toboso e alla valentia dell’ultimo errante, dell’hidalgo dalla triste figura. I secoli intermedi, tra Rolando e la modernità, furono afflitti da eroine bistrate e truccate: fu epoca di avvelenatrici e cortigiane: Beatrice Cenci
 e la Borgia Lucrezia, magistra farmacorum. Ma credimi, l’eroina che è cara al mio cuore non era sparita, eclissata dalle dame con l’ermellino e dalle fornarine, dalle Eleonore e dalle Caterine: aspettava, semplicemente, che la storia ripassasse di lì. E, quando il romanzo cominciò a staccarsi dall’archetipo rinascimentale, ricominciarono a far capolino, dapprima timidamente e, poi, con sempre maggior lena, le donne vere.
Perfino in quella fase monumentale dell’eroismo da baraccone che fu il Romanticismo, assistiamo a qualcosa che, se non è il ritorno delle donne eroiche, almeno ci assomiglia: accanto all’algida Rowena, appare Rebecca, ebrea piena di passione disperata. Ed è il 1810: Walter Scott forse lo ignora, ma sta creando il futuro, col suo Ivanhoe. Qualcosa di simile accade nella pur diafana femminilità di Lucia Mondella: troppo passivamente religiosa per avere un carattere, ma pure eroica nella sua ostinata fede, perinde ac cadaver.
Sarà però la grande stagione del romanzo francese a restituirci la donna, ero
ica al femminile: Eugenie Grandet è uno schiaffo in faccia alle dame e alle cingane di Victor Hugo, alle invasate di Stendhal, a Mathilde de la Mole, e che il diavolo se la porti.
Lo so cosa stai pensando: che, come sempre, mi lascio trasportare dal mio lavoro. Che non mi dimentico mai degli aspetti scolastici della letteratura e che questo mi acceca, mi distoglie dal problema vero. Sarà anche: ognuno è figlio del proprio destino. Ma, credimi, c’è un palpito autentico in quel che dico: certe donne di carta sono veramente capaci di emozionarmi. Come Gozzano, dolceamaro, tra lo sghignazzo e l’idillio, anch’io confesso, davanti all’amica di nonna Speranza: te sola avrei potuto amare, amare d’amore… Che dire di certe eroine capaci di asperrime bohèmes, portate fino all’estremo sacrificio purché il loro uomo riesca in qualche impresa titanica: possente eroismo dell’annullarsi per dare la vita. Come morire di parto. La protagonista sublime de Il lupo della steppa di Hesse, che muore perché il solitario possa terminare il cammino. Donne come pietre di Filitosa, come colonne sul
 promontorio. Non clamorose commedianti, come la dolicocefala bionda di Pitigrilli: sempre tesa a stupire, a vincere, a brillare. Neppure come le finte donne neorealiste di Pratolini, che a sedici anni ragionano come Ave Ninchi nel corpo di Alida Valli. Donne vere, dolorosamente inclini ad amare una volta sola e per sempre, senza remissione né rimpianto.
Caro Gabriele, io amo le donne carsiche, la cui vera vita scorre sottoterra, come il misterioso Timavo e la cui vena riemerge soltanto in prossimità del mare: laddove possano mostrare la loro vera natura, morendo. Quella che si innamora di Emilio ne La madonna dei filosofi, e continua eroicamente ad amarlo nel segreto, ad amare la sua assenza infinita, opponendo all’ottusa politica matrimoniale dei borghesissimi, ignari, genitori la caparbietà quieta dei suoi vent’anni.
Arwen, insomma, non Eowyn: colei che attende non quella che cerca la morte in battaglia, come qualunque uomo respinto farebbe. E oggi, mi dirai: dove sono oggi le eroine? In letteratura no, certo: le donne letterarie o collezionano uomini come si infilerebbero perline o sono psicotiche, incapricciate di qualche volubile mania, troppo grasse o troppo ma
gre. Troppo costruite e destrutturate: troppo poco donne per essere buona letteratura. Nella vita reale, probabilmente, qualche eroina di quelle che dico io c’è ancora: ma, secondo regola, o non mi conosce o, se mi conosce, mi evita. Eppure, mi piacerebbe che una donna così si occupasse di me: dei miei capricci e della mia avanzante demenza senile. Come l’amante del marchese di Roccaverdina: una donna caparbiamente fedele, che mi chiamasse «figlio mio» e mi pulisse la bocca quando sbavo. Ohibò. Un’amante di tutta una vita, come in Fort comme la mort di Maupassant: e io come Olivier Bertin, artista ben pasciuto ma ancora disposto all’impazzamento. Mi gusterebbe. L’esatto contrario di un’Emma Bovary.
Perché, in fondo, caro Gabriele, la verità è che sono io a non essere all’altezza di una donna eroica. Un’Arwen non me la meriterei. Ma di un’Eowyn, francamente, avrei qualche soggezione: metti che s’incazzi e mi tratti come il Nazgûl del Re Negromante…
Alla prossima!


E no, caro 
Marco: la donna vera, quella che ama eroicamente ed eroicamente combatte, non è quella che sceglie per sé una vita da zerbino per consentire all’uomo suo di pulircisi gli stivali nuovi. Ma non è nemmeno la virago che paventi tu, sia ben chiaro! Non potrei mai amare una Pentesilea regina delle amazzoni (anche perché non mi si filerebbe di striscio, pensando alla sua Clonia…). Però guarda Turno quant’era felice di avere al fianco in battaglia una tipa come la vergine Camilla, allevata a pane e lame epperò bella come il sole (e non per ni
ente Dante Alighieri la ricorda come la prima martire per la libertà della nostra amata patria). Tu mi dirai che infatti vergine era e vergine è rimasta, ma essendo morta giovane non sapremo mai se qualcuno l’avrebbe prima o poi conquistata visto che, a differenza delle amazzoni, lei non preferiva le donne agli uomini ma semplicemente si era votata alla castità come Diana cacciatrice, alla quale il padre Metabo, re di Priverno caduto in disgrazia e fuggito nei boschi, l’aveva affidata fin da bambina. Non potremo mai sapere se il Turno di turno sarebbe mai riuscito un giorno a spulzellarla, visto che lui venne sbudellato da Enea sulle sponde del Tevere e lei morì guerreggiando per difenderlo. Ma d’altra parte il mito è bello così com’è e serve con chiarezza d’immagini a togliere incertezze piuttosto che a crearne di nuove...
Vedi bene, Marco, che una come Camilla non si presenta con sparate ampollose e volgari vanaglorie, perché la verità è che l’ardimento, sia esso maschile o femminile, di barocco ha proprio nulla! Capiamoci bene, insomma: tu accosteresti le dichiarazioni altisonanti ai guerrieri più valenti? No, appunto… in vita nostra ne abbiamo coglionati fin troppi, di capitanfracassi, per non riderne ancora adesso, amico mio. E allora perché sminuire la valentia di certe donne con presunte vanterie barocche?
Il fatto è che la donna che s’immola m’intenerisce, certo, ma per far risuonare il ferro ci vuole altro ferro, n’es pas? Eowyn che va alla guerra cavalcando insieme ai Rohirrim in soccorso di Gondor non sacrifica la sua femminilità: la sublima seguendo lo stesso impeto che avrebbe preferito gettare in ben altra tenzone con Aragorn… Ma dico, te l’immagini i ruggiti di una donna del genere? Ecco, appunto, vedo che mi capisci, caro Marco. Va da sé che parlando di ruggiti si pensa al leone e non a caso: perché anche il re della foresta si guarda bene dal tagliar le unghie alla sua dama, visto che è lei a portare a casa la pagnotta mentre lui aspetta e, nel caso, difende lei e la famiglia da bravo soldato.
La donna che ami è come il Timavo, dici, che s’affonda nella roccia per scorrere in segreto, sospirando nell’oscurità, e poi mostrarsi di nuovo al cielo solo per morire, com’è sua natura… Mi tornano alla mente i sospiri di Melania per Ashley e già sento l’orticaria, vedi? Come si fa a ribollire per quella mielosa palla al piede che appesta le pagine di Via col vento di Margaret Mitchell? No no, io dico mille volte evviva Rossella O’Hara! Ma viva la faccia, caro Marco: con una donna così rivolti il mondo (certo, a patto di essere una scorza dura come Rhett Butler, ma queste sono sfide che val la pena provare). Con una come Melania l’esperienza più radicale che ti possa capitare (mi perdonerai) è beccarti il diabete mangiando pane e acqua.
E restando in tema di guerra… sarà che ai tempi dei casini a scuola e in piazza ho conosciuto ragazze che quanto a coraggio davano dei punti a tanti di noi maschietti, ma le uniche donne che nella letteratura contemporanea mi hanno commosso sono state quelle che hanno preso parte, non quelle che aspettavano a casa, appunto, sospirando. Le partigiane di Levi, se vogliamo (anche se parteggiavo per il fronte opposto), e tanto più le ausiliarie della Repubblica sociale, che pagarono lo scotto più terribile per aver voluto indossare una divisa votata alla sconfitta, in nome di quell’onore d’Italia per il quale i loro coetanei andarono incontro alla morte, quella fisica o quella della dannazione futura.
E che mi dici di Evita Peron? Dico, era o non era una che avresti pagato oro per averla a fianco? È grazie a lei se il peronismo è passato dalla storia al mito. Senza la signora dei descamisados argentini, regina di passione e dedizione e di bellezza e di eleganza e di coraggio, suo marito Juan Domingo sarebbe stato lo stesso? Io dico di no, e la storia della pallida seconda moglie Isabelita (quella sì, copia scialba e barocca della prima) ne è la prova provata.
Dammi retta, caro Marco, sarà pur vero che le nostre misere vite e i nostri tempi ancor più miseri non meritano una Eowyn né una Arwen… Ma se è vero che al volger delle tenebre l’unica luce viene dai sogni (che pure alimentano la speranza), allora che questo sognare sia intrepido e superbo, proprio come la figlia di Theoden che cavalca verso i campi del Pelennor.
Hasta luego, Marco. Alla prossima.

sabato 26 luglio 2008

BOTTA & RISPOSTA - Quest'estate, mare o montagna?


Tenzone semiseria
sui libri e le vacanze

di Marco Cimmino
e Gabriele Marconi


E no, caro Gabriele, adesso, con la scusa del solito pezzullo prevacanziero sulle letture consigliate, non cercare di far passare l’ipotesi che il mare sia meglio della montagna. Ma vuoi mettere? Leggere Le nere di Buzzati, sparapanzati sotto un larice, ai piedi della Civetta, è un’operazione altamente filosofica: archeologia dell’anima e della mente. Leggere quel che vuoi tu, su di uno scoglio pieno di spunzoni, con il sole negli occhi, gli spruzzi sulle pagine e la famigliola a tre metri che discute sui tempi di cottura della pommarola, è accadimento al limite del masochismo.
La montagna è, innanzi tutto, riflessione: ti costringe a pensarci su, sia che te ne stia in ozio, sia che propaghi albuminoidi e idrocarburi aromatici per cenge o per sentieri.
Nel primo caso, i tuoi pensieri vagano, in una sorta di pausa catatonica, sulle cose della vita: sul passato e sul futuro, giacché il presente, come in ogni catatonia che si rispetti, ha cessato di esistere. Negli intervalli tra un coma e l’altro, suggerirei al valoroso scalatore la lettura di qualche divertente romanzetto, che sdrammatizzi, chessò: qualcosa di Wodehouse, di Munro, di Salinger.
Nel secondo, dopo aver concentrato i neuroni sul solito, inevitabile, “chi me l’ha fatto fare?”, i pensieri spaziano, sereni, illimitati, cristallini: come lago d’alpe, avrebbe canticchiato Bortoluzzi, ridendo sotto i baffi. E nel lago d’alpe ti ci puoi anche buttare: altro che O mare nero mare nero mare ne’..! Dopo il semicupio, tonificati e redenti, sarebbe estremamente giovevole dedicarsi a letture sanamente fisiche, del tipo dei romanzi di Andrea Vitali, o di qualche bel saggetto sulle abitudini erotiche di questo o di quello. Basta con le mummie, basta signori inanellati, spadoni incantati e maghi britanni: un po’ di sana patonza, al limite del disimpegno, questo richiede la montagna! Anche perché l’impegno, quello vero, non manca: chiamalo trekking, escursionismo, chiamalo canyoing, free climbing, arrampicata. Chiamalo come ti pare, ma, in montagna, se non sei una tarma, qualcosa di impegnativo da fare lo trovi di sicuro.
Ecco, pensa un po’ al caro, vecchio Adamello: uno si legge Evola, fra tigri da cavalcare e vette da raggiungere, e parte a manetta. Dalla teoria alla prassi. Dopo qualche centinaio di metri di parete, sul Mataròt o sul Cavento, i concetti del barone nero cominciano a farsi più netti, più definiti. E si capisce che le cose non basta leggerle: bisogna anche provarle. Lo so che lo sai: non fare finta di niente! Il mare che ti trasmette, in questo senso? Cosa fai: giochi a Joseph Conrad? Non c’è più il mare dei clipper, delle baleniere di Capitani coraggiosi: il mare è quello che solchi col pattino o, peggio, col motoryacht. Il mare dei cafonauti, come diceva Giorgio Falck. Se ci sono due ondine: bandiera rossa, e si resta a riva.
Lo so che tu non fai così, andiamo, non cambiare argomento: la mareggiata era uno degli eventi topici dell’estate roccellese, e il tuo tuffo ad angelo nel cavallone ha fatto scuola e creato leggenda. Ma il mare di tutti, il mare di quelli che si portano nella borsona di paglia l’ultimo bestseller di qualche scrittore iraniano, armeno o di sa il diavolo dove, è proprio quello. Il gelatino, l’arancino, la sdraina e il lettino: solo l’ombrellone ha un nome tonitruante, ma si riduce a povera cosa, con scritto su “Bagni Adelmo” o “Gelati Sanson”.
E poi la montagna è sfida, è prova fisica e caratteriale: ci vuole forza e ci vuole coraggio. Si presta anche alla lettura di qualcosa di più adrenalinico: saghe e battaglie possono diventare il fertilizzante mentale delle tue ascensioni. Andrebbe benissimo anche un’antologia dei sogni di Randolph Carter, magari curata da De Turris. Oppure, cercare il perduto Kadath, l’altopiano di Leng…C’è poco da fare, la montagna ti avvicina a Dio: il mare, tutt’al più, ai cefali! Pensa che quest’estate, in Trentino, sarò in vena talmente mistica che voglio leggere il tuo nuovo romanzo. Ammesso che me lo regali… E lo userò come cibo per la mente, quando me ne andrò con la mogliera e il bocia, a spasso per le lobbie: tra cielo e neve.
E poi, anche la morte, in mare e in montagna, è diversa: il mare ti ruba, ti nasconde e, poi, quando lo fa, ti restituisce gonfio, pavonazzo, sconciato. La montagna, quando ti vince, ti rende subito al cordoglio di altri alpinisti, addolorati e composti, stanchi per la salita disperata, per il soccorso infruttuoso. Ti stanno intorno, come in un funerale vichingo, ti portano a spalla, come un re del passato. Oppure ti affidano all’elicottero, e te ne scendi, volando come un’aquila, tra le vette che ti salutano con rispetto.
Dammi retta: macchè mare! Vita e morte sono migliori in montagna. Leggiti Aria sottile di Krakauer: porca l’oca, quella sì che era gente con le palle! La montagna è scuola di vita assoluta: ti impone preparazione lunga ed attenta, scelta accurata dei materiali e dei percorsi, decisione senza rischio arbitrario. La montagna non è un posto da fanfaroni: le compagnie di giovanoidi con gli scooter e l’aria da bulletti vanno bene fuori da una gelateria. Fuori da un rifugio alpino non sono soltanto ridicole: sono impossibili.
In montagna, perfino i fumetti assumono necessitanti caratteristiche: leggerai Valiant, Corto Maltese, non i manga. Tutto rallenta, in montagna, tutto assume una dimensione più umana, legata ai ritmi eterni della natura. E, poi, la montagna rappresenta la radice che affonda fino al centro della terra, la tradizione immutabile: la sicurezza, la solidità. Il mare è mutevole, sempre diverso e sempre uguale, pieno di pescioni che ti sfiorano le gambe con scivolosi inquietanti contatti. Sul suo fondo si nascondono chele di granchio, spine di riccio: il mare è traditore. La montagna è lì, che sembra dirti: io sono fatta così, dura, implacabile e, se vuoi misurarti con me, sappi a cosa vai incontro. Ma non troverai null’altro che questo: non misteri, non segreti, non agguati. La slavina cade perché la fai cadere e cade dove cadono di solito le slavine: cento metri più in là, nulla ti potrà capitare. La tragica fatalità, in montagna, si chiama imprudenza, imperizia, inesperienza.
Per riflettere debitamente su questo aspetto, consiglio a tutti il ponderoso tomo della Meditazione milanese, del Gadda: lì si troveranno descritte le necessità e i doveri della vita materiale e spirituale. Al mare, non la MM, ma anche qualunque altra pagina del circonvoluto risulterebbe indigeribile: miracoli alpini!
La montagna tonifica, il mare snerva: la montagna ricarica, al mare ti scarichi. In montagna ci sono salite e discese: al mare c’è il mare, e basta. Per colpa di Archimede, le discese e le salite nell’acqua non ci possono essere. E, ancora, in montagna mica c’è solo la montagna: ci sono i laghi, i fiumi, il golf e il tennis, la bicicletta, le bocce, perfino il curling, se te ne diletti. In montagna ci sono perfino i ritiri delle squadre di calcio, siano maledette in eterno!
Al mare si pesca, mi risponderai. Certo, se uno si legge Il vecchio e il mare di Hemingway, l’impressione è che esistano solo i marlin e che solo al mare si peschi: ma che dire delle trote, iridee, fario e salmonate, dei salmerini, dei persici, dei lucci, financo delle ineleganti alborelle? Ocché, si pesca solo al mare? Ma non diciamo fesserie! E in montagna, se ti piace sparacchiare a questo e quello, ci sono pernici e starne, ungulati e roditori: basta avere il permesso. Io personalmente, lo sai, sparerei ai cacciatori, dovendo scegliere: tuttavia, se uno ha l’uzzolo bacato di schioppettate gli animali, è in montagna che deve andare, mica alle Seychelles.
Pensandoci bene, poi, la montagna va bene sempre, e il mare, invece, no. Nessuno scriverebbe mai una canzone malinconica, intitolandola La montagna d’inverno: viceversa, c’è una nota canzone del nostro amato Enrico Ruggeri che farebbe venire il latte alle ginocchia a un ipercinetico fatto di coca, e che parla del mare nella brutta stagione. Che, in montagna, è una stagione bellissima.
Oh, insomma, finiamola qui: per la verità, a me piace anche il mare. Ma lo trovo, come dire, più limitato: meno a trecentosessanta gradi. Meno in tinta coi miei occhi, meno adatto al mio sistema nervoso. Lo trovo anche più affollato, meno eticamente selettivo: in Costa Smeralda la selezione è data dal numero di zeri sul conto in banca, i quali, senza dubbio, contano appunto come zeri e non più, se sei aggrappato a un diedro sulle Tofane. Un paio di scarponi è un paio di scarponi: il trentasette e mezzo e il quarantanove, più o meno, costano uguale. Un otto metri in plastica e un sessanta piedi del Pardo, invece, hanno costi parecchio diversi. E poi Capalbio: vuoi mettere Capalbio? E dove diavolo lo trovi, in montagna, un posto come Capalbio? Gente che al più broccolo dei rifugi non arriverebbe nemmeno con la bombola dell’ossigeno!
Ohiohi, più ne parlo, e più mi rendo conto che ho posto male il problema: la questione non è tra mare e montagna, quanto tra la gente che va in vacanza al mare e quella che va in montagna. E finirei con l’attaccare la solita predica di destra, o tempora o mores, che mi è già costata il posto una volta: meglio soprassedere e chiuderla qui.
Un ultima riflessione: chissà se il povero disperato che ci sta leggendo si trova al mare o ai monti? E chissà se si riconosce o meno nelle nostre bischerate? L’importante è che si sia portato dietro qualche altra lettura, perché, se dovesse tirare avanti con i nostri botta e risposta, mare o montagna, sai che due palle?
Buone vacanze.

Marco


E no, caro Marco, non c’è pezzullo vacanziero che tenga. Lungi da me il pretender di farti dire che il mare è meglio dei monti. Giammai potrei pensare che rimpiangi le estati calabre a bere scirrubbetta e a girellare fino all’alba senz’altro pensiero che quello di cantare, ballare e fare il bagno a mezzanotte in dolce compagnia…
(Ecco, t’ho piazzato il colpo basso in apertura, così posso continuare in scioltezza…).
Il mare, dici, modello ferragosto afoso e sudaticcio… Ma perché, bisogna leggere per forza su scogli puntuti e affollati? Dico, hai presente le migliaia di chilometri di comodissime spiagge che deliziano il mare nostro? Per non parlare di altri mari, quelli esotici, che con questi chiari di luna ti vendono a prezzi stracciati… Ombrellone, sdraio, bibita… piedi a mollo… O la spiaggia davanti a te col sole a picco, e i roventi ciottoli calabri vicino a riva da raggiungere col passo lento e sicuro di un legionario di Sidi bel Abbes… sdraiarsi là, con le cellule che sembrano sfrigolare piano… e il mare a un passo, come una carezza divina…
Ma vuoi davvero paragonare l’ozio marino? Dico, qualcuno ricorda altri ozi mitici che quelli di Sibari? E non mi sembra di ricordare che fosse un villaggio alpino…
Il sole, il sale e il mare invitano a letture evocative di simili orizzonti… Iliade, Odissea, le vicende immortali dei Normanni o del Falco di Svevia, Federico II; o ancora, per venire a più recenti stampe, Le porte di fuoco di Steven Pressfield.
Il Meridione invita a pensieri di grandezze passate e nostalgia di grandi cose. Ce n’è per tutti i gusti: da L’eredità della priora, grande romanzo di Carlo Alianello sul brigantaggio filoborbonico, a Il bianco sole dei vinti, nel quale Dominique Venner racconta l’epopea sudista durante la Guerra di secessione americana.
Se poi non hai voglia di struggerti di ricordi o di sole, resta sempre lo sbracarsi all’ombra di una palma o di un semplice ombrellone. E a rincarar la dose di dolcissimo far niente, proporrei il Don Giovanni in Sicilia di Vitaliano Brancati, per godersi senza fatica le avventure del sicilianissimo Giovanni Percolla e dei suoi amici, ai quali «i discorsi sulle donne davano un maggior piacere che le donne stesse». E parlando di piacere non puoi ignorare l’emblema massimo dell’abbandono, la mediterranea “controra”, da esaltare con la pennica o - se si vuole - con una lettura (qui son d’accordo con te, caro Marco) di sano erotismo pagano: I cinque sensi o le cinque forme del piacere, di Fiammetta Oselladori per le Librette di Controra.
Che poi si torni da un tuffo in acque profonde, da una regata o da un rotolarsi indolente su bagnasciuga, non ci sono solo le pagine immortali di Conrad, Melville o Hemingway, o del sole infuocato che rallenta il passo degli amabili fannulloni di Pian della tortilla di Steinbeck: c’è il mare avventurosissimo di Bernard Cornwell e dei suoi Girasoli.
Per quel che mi riguarda - malgrado l’istinto mi imponga di quando in quando un exploit per marcare il territorio - la vacanza merita l’ozio totale, altro che tarma, Marco mio! Alga, voglio essere, mossa solo dalle onde, fluttuante nel nulla. Dalla pace raggiunta, poi, potrò solleticare il mio spirito sfogliando altrui imprese (visto che le mie, oltre che leggenda, hanno prodotto una spalla lussata…): comincerei con Le avventure del capitano Hornblower, di Cecil Scott Forester, oppure, non avendo voglia e tempo di sciropparsi le 1945 paginone di abbordaggi e ribellioni, epidemie e tradimenti, c’è sempre Una ballata del mare salato, di Hugo Pratt, sia in versione romanzo e sia in quella imaginifica e più famosa del Corto Maltese a fumetti. E già, che poi tu Corto Maltese me lo citi come lettura da fare sulle cime nordiche… E certo, perché Corto è un alpinista, no? Dai, lo so che qui stiamo tutti e due a forzare i ragionamenti per averla vinta, ma quando è troppo è troppo! Corto Maltese è marinaio, gentiluomo di fortuna, avventuroso e combattente disincantato, che quando non va per mare è solo per disgrazia.
Seriamente: ma davvero il mare è solo folla sudore coattume? Per chi ha ghiribizzi sportivi, ce n’è per tutti i gusti. Lo sai bene che il mare offre questo e quello: non c’è solo bagnasciuga per famiglie sovrappeso, ma fondali fantastici per incursori bombolati o apneici. Leggiti, allora Teste di rame, di Francesca Giacchè, che racconta le operazioni subacquee dei palombari italiani lungo il Novecento, o meglio ancora quello su Teseo Tesei e gli assaltatori della Regia marina, di Gianni Bianchi, così poi ne riparliamo.
Per quanto mi riguarda, quando (il più raramente possibile) il sole modello deserto mi ispira imprese epiche, ho sempre la mia canoa per rodeare sui cavalloni…
Se poi vogliamo fare a chi ce l’ha più grosso, metto giù sul piatto i surfisti de noantri, che non sono pochi, e quelli che s’impennano col kitesurf, appesi agli aquiloni, che non finiranno in alto come quelli del parapendio, ma sono bei pazzi, fidati! Piacerebbe anche a te, che in quanto a lavoro fisico vai a mille per mantenere il fisicaccio che hai duramente raggiunto negli ultimi tempi.
Dici della pesca, poi, che ormai in mare è cosa da poco… ma non ci sono solo i marlin da tirar su, ché per chi sta lì con la canna, anche un sarago ben piazzato è preda da non disdegnare dopo un pomeriggio passato a ponzare intorno ai massimi sistemi con la minima fatica.
Sì, lo so bene che scendendo in spiaggia, quello che vedi prima è folla unta di creme e gonfia di insalata di riso, ma tutto sta nell’andarsi a capare un po’ di solitudine, di profondità o di movimento (in senso di movida).
Ah, già! Il movimento… Ma vuoi mettere la dolce vita marina con quella montana? Già me lo immagino: e dopo l’ascesa al Monte Aguzzo, tutti dalla sciura Clara a suonare la fisarmonica! Pietà, oh pietà… Ti sei già dimenticato il Lido Flora e il Tam Tam? Non vado oltre perché per i tre nostri lettori è come parlare in codice, ma insomma, quando mai si associa divertimento e rimorchio alla montagna? Una rotonda è sul mare, come il sapore del sale e gli ombrelloni-oni-oni. Punto. E se proprio si deve filosofare, vogliamo fare a gara tra pensatori mediterranei e alpini? Non è per niente che il cretinismo per mancanza di iodio si chiama alpino. Andiamo, non voglio infierire…
Sì, la montagna è radice e tradizione immutabile, è vero, però il mare è confine da superare, lasciando i porti familiari per cercare nuovi approdi e, solo così, crescere e rinnovarsi. Non per niente gli italiani sono un popolo di poeti, santi e navigatori…
Preferisco il mare, non c’è che dire. E se proprio ci devo pensare, sai bene che mi piace pure d’inverno, coi suoi cavalloni giganti come gobbe di possenti draghi sotto un cielo corrusco e tempestoso… Dai, ce n’è di che innalzarsi! E d’altra parte, almeno il mare d’inverno qualcuno l’ha cantato, mica come la montagna d’estate che non se la fila nessuno…
Vabbe’, anch’io ho da ammettere una cosa: d’inverno la montagna piace pure a me, dico la verità, ma non certo quella delle file alla seggiovia e su e giù a manetta tra snowboardisti rasta che ti passano sugli sci senza neanche chiedere il permesso! A me piace la solitudine degli spazi deserti in escursione coi miei fidati sci da fondo, faticando e sudando e ansimando come un mantice, preferibilmente in salita… perché alla fine della fiera possa dire «ma chi me l’ha fatto fare? Meglio, di molto meglio il mare».
Un ultima cosa… dove vanno in vacanza i nostri lettori, dici? Coi tempi che corrono, restano in città o al massimo vanno al lago.
In ogni caso, buone vacanze a tutti. E che le pagine siano con voi.

Gabriele

venerdì 20 giugno 2008

IL REGNO NASCOSTO: Amico è... un Nano che vive e lotta insieme a noi!





Di Roberto Alfatti Appetiti


«L’evasione è una delle principali funzioni delle fiabe. Respingo il tono sprezzante e compassionevole che connota tanto spesso, oggi, il termine. Perché un uomo dovrebbe essere disprezzato se, trovandosi in carcere, cerca di evadere per tornare a casa? Oppure, se non lo può fare, se pensa e parla di argomenti diversi che non siano carcerieri e mura di prigione? I critici confondono l’evasione del prigioniero con la fuga del disertore». Così scrive J.R.R. Tolkien in Albero e foglia, un milione d’anni fa, nell’Era della Ideologia Totalizzante, quella – per intenderci – del confronto muscolare delle Maiuscole. Ben prima che sui grandi schermi di tutto il mondo arrivassero kolossal cinematografici tratti dalle opere del celebre scrittore inglese, seguite dalle avventure di quel maghetto libertario di Harry Potter, e che i grandi editori scoprissero il business della fantasy.Sia chiaro: non che ne Il Regno Nascosto (Dario Flaccovio Editore) – il nuovo romanzo di Gabriele Marconi e Errico Passaro, da pochissimi giorni in libreria – manchino i muscoli. Se ci macchiassimo di una tale affermazione, dovremmo vedercela con i nani. Leali finché si vuole, ma permalosi! Pronti a tirare fuori l’ascia e a sfidarci a singolar tenzone per molto meno.
Perché protagonista di questo bellissimo romanzo è il popolo dei nani, depositario di quei valori tradizionali che gli uomini – nella IV era avanzata (tolkienianamente parlando) che fa da ambientazione alla storia – hanno quasi del tutto abbandonato, “imprigionati” nelle attività commerciali. Gli elfi avevano lasciato la Terra di Mezzo, gli hobbit si erano ritirati e – parafrasando una celebre massima di Woody Allen – neanche i nani si sentivano tanto bene. Per lungo tempo avevano condiviso il mondo con gli uomini. Poi erano partiti tutti insieme per cercare un luogo adatto a ricostruire il loro regno, nel grande Nord. In pochi, ormai, abitavano nei “quartieri naneschi” delle città degli uomini: nel villaggio di Cuterbor solo Althorf del clan Maûk e i suoi nipoti, Vitur e Tekkur. E per inseguire questo luogo leggendario e riunirsi al loro popolo nascosto, i due nani si mettono in viaggio. Sul loro cammino troveranno amici inaspettati e nemici dichiarati quanto spietati in un avvincente crescendo di colpi di scena.
Sì, perché aprire il libro è come salire su una carrozza che all’improvviso si mette a correre rimbalzandoci da una parte all’altra e non è più possibile – né lo si vuole – scendere. Ci si ritrova in un mondo sconosciuto eppure familiare, soprattutto per gli appassionati delle saghe del maestro Tolkien, e quando infine si arriva a destinazione rimane quella destabilizzante e piacevole sensazione di smarrimento che la migliore narrativa lascia in dote ai lettori, ripagandoli ampiamente del tempo sottratto ad altre più utilitaristiche attività. Il piacere meraviglioso della lettura libera da pedagogismi e tesi politiche preconfezionate.Quasi sobbalza sulla sedia Gabriele Marconi, quando gli rivolgiamo le domande che uno scrittore di fantasy mai vorrebbe sentirsi fare: c’è una metafora dietro alla storia? I nani chi rappresentano? «La metafora – protesta – è nemica della fiaba vera». Ma come, c’intestardiamo, a Cannes trionfano film italiani su Andreotti e sulla camorra in un formidabile tandem di attualità estrema, e voi vi interessate al destino di un manipolo di nani?

La domanda appare ancora più provocatoria se si pensa che Gabriele Marconi, oltre che scrittore affermato – autore tra l’altro di Io non scordo (Settimo Sigillo, 1999, riedito da Fazi nel 2004) – è anche direttore responsabile di Area, una rivista politica tutt’altro che “neutrale” nel dibattito politico-culturale.
«Tra le righe del romanzo – confessa – ci sono le mie esperienze della politica fatta per strada, le amicizie nate in contesti politicamente più difficili di quelli odierni, ma è bene che i narratori si facciano da parte per lasciare alla storia la possibilità di evolversi in piena libertà».
«Non scriveremmo di nani e draghi, sarebbe riduttivo – aggiunge Errico Passaro, giornalista e scrittore con all’attivo cinque romanzi e un centinaio di racconti, tra i massimi esperti in materia di fantastico – se non pensassimo di proporre modelli di comportamento esemplari attraverso i comportamenti concludenti dei protagonisti che, affrontando le situazioni di pericolo, mettono in scena precisi canoni morali ed etici. Non è, il nostro, un manifesto funzionale a dettare tavole dei valori né tanto meno una predica – come usa fare certa narrativa contemporanea – ma di sicuro indichiamo una precisa scelta di campo: l’egoismo cede il passo all’altruismo e l’individualismo allo spirito comunitario. Nella battaglia non puoi essere solo, devi legarti a una compagnia e dare il meglio di te, senza cedimenti».
E che l’unione faccia la forza lo dimostra anche l’ottimo “risultato” di questa opera a quattro mani, resa senza ricerche letterarie pretenziose e con uno stile semplice e diretto che la rende accessibile anche a un pubblico di giovani. Scritta – tra l’altro – da un Marconi giovanissimo: «La storia era custodita, sia pure in fase embrionale – racconta – in un’agenda di oltre vent’anni fa. È la prima cosa che ho buttato giù, solo molto tempo dopo ho iniziato a raccontarla come favola a mia figlia». Più recentemente è nata l’idea di riprenderla e svilupparla grazie al contributo di Passaro, uno scrittore dalle caratteristiche molto diverse ma con un minimo comune denominatore molto forte, l’amore per Tolkien, al quale il romanzo è un omaggio dichiarato. Una passione che viene da lontano. «Negli anni Settanta i romanzi di Tolkien – ricorda Marconi – sconvolsero la dittatura del realismo imposta dal conformismo di allora, quando solo a parlare di fantasia si veniva banditi come fascisti. E a Tolkien venne riservato lo stesso trattamento, malgrado le arrampicate sugli specchi di quanti oggi smentiscono i propri scritti di quel periodo. Sia Il Signore degli anelli che Lo hobbit furono come una ventata d'aria pura e libera dopo i fumi che appestavano la nostra atmosfera».
«Non si tratta di un romanzo con pretenziose connotazioni etiche – sottolinea Passaro – ed è diverso da quanto scriviamo singolarmente. Quanto realizzato è l’alchimia tra la mia anima roboante e retorica e quella giullaresca e cameratesca di Gabriele. Non manca una forte componente eroica ma niente di marziale. È soprattutto un romanzo sul valore dell’amicizia». E l’amicizia tra Marconi e Passaro è nata proprio al premio Tolkien, nella cui edizione del 1988 Marconi arrivò in finale con la sua opera d’esordio, il racconto Il guardiano.
E i personaggi e le vicende dei libri di Tolkien sono evocate soprattutto nelle canzoni contenute ne Il Regno Nascosto – tre scritte da Marconi e una, Tramonti, da Francesco Mancinelli – cui spetta, come vuole la tradizione, il ruolo di narrare e tramandare le storie antiche. È proprio dopo aver ascoltato le leggende sul regno dei nani e sulla potenza della loro gente che Vitur e Tekkur decidono di partire, costi quel che costi.
E non è certo un caso se la presentazione del libro – organizzata per questa sera alle ore 18 presso la Biblioteca Angelica in piazza Sant’Agostino a Roma, con la presenza, oltre che degli autori, di Gianfranco de Turris e Gianluca Teodori di Radio Dimensione Suono – sarà arricchita da un breve concerto acustico del gruppo La Contea in cui saranno cantate proprio le canzoni presenti nel libro, grazie alle quali chi avrà la fortuna di parteciparvi potrà immergersi sin da subito in quel respiro multitemporale che rappresenta la caratteristica principale della letteratura “di fantasia”: quando la circolarità del tempo allarga l’orizzonte del lettore verso dimensioni altre rispetto al presente. È questa, in definitiva, la chiave del successo di quella che fino a non molti anni fa veniva liquidata come narrativa di “genere”: la capacità di parlare alle giovani generazioni, di proporre valori altri in una società moderna in cui mancano sempre più punti di riferimento etici e gli unici ruoli disponibili – nel grande mercato culturale – sono quelli di produttore e consumatore (passivo) di beni e servizi. E di libri. Senza l’auspicabile vera terza via, quella del sogno, dell’azione esemplare, dell’evasione liberatoria da un presente nel quale – a differenza del fantasy, dove le “brutture” vengono affrontate a viso aperto – non è chiara la linea di confine tra bene e male e le persone raramente riescono a emergere per quel che sono e valgono.
E allora non rimane – per chi non potrà partecipare all’iniziativa romana di oggi – che leggere il libro e goderne la leggerezza ma anche la densità. Aspettando il seguito che – ci anticipa Passaro – «potrebbe essere... dietro l’angolo».
(dal Secolo d'Italia di venerdì 13 giugno 2008)

martedì 10 giugno 2008

BOTTA & RISPOSTA - Ma dov’è la grande narrativa?

di Marco Cimmino e Gabriele Marconi

E no, caro Gabriele: ad avere belle idee sono capaci tutti. Così come ad immaginare strutture ardite, come cattedrali di paragrafi e di capitoli, non ci vuole più l’ingegno ardito dell’Alighieri, ma basta un ingegnere.
Oggi, purtroppo, il romanzo ha perduto la sua caratteristica di artigianale levigatura: oggi si scrive in serie e i romanzi sembrano sempre più quei polli in batteria, che vengono lasciati razzolare nell’aia soltanto quando qualche vecchiardo con l’uzzolo delle pubblicità decida di dare l’idea del volatile ruspante al consumatore ingiulebbato, facendosi ritrarre tra bambini deficienti e galline starnazzanti. Ma la letteratura, quella vera, è bella e morta, mio caro: oggi prosperano i Ken Follett, gli Stephen King in sedicesimo. E giacchè proprio King è uno dei tuoi prediletti, prenderò proprio lui per farti un esempio.
Stephen King è certamente un visionario di prim’ordine: un eccezionale creatore di idee narrative. È anche, va detto, un bravo scrittore: uno che conosce come pochi il mestiere di scrivere. Purtroppo, però, ha due difetti immedicabili: è americano e vive in quest’epoca americanissima. Quindi, proprio lui che, ne sono certo, disprezza la macchina editoriale statunitense, basata sul marketing, sui ghostwriter, sulle pubbliche relazioni, sui reading, è il padre della moderna ricetta letteraria: un genio al servizio della mediocrità, verrebbe da dire. Infatti, King è stato il primo o, perlomeno, il primo di fama mondiale, ad applicare il lievito alla scrittura: ogni sua idea, da cui avrebbe potuto uscire un bellissimo racconto, agile e scarno, oppure un romanzo breve, di quelli che ti tengono legato alla sedia per ore, è stata dilatata, gonfiata, amplificata, utilizzando tutti i più vieti stilemi della retorica ciceroniana. L’operazione è servita a fare assumere ad una “fabula” adatta alle cento paginette la dimensione, ideale per il mercato americano, di Guerra e Pace: il tipico mattone da cinquecento pagine, di quelli che si portano in vacanza o che si leggono a piccoli bocconi prima di addormentarsi. Una volta si chiamavano, per questo, livres de chèvet.
Così, al dì d’ancuo, i cosiddetti bestseller hanno tutti lo stesso formato: carta grossa, caratteri ben leggibili, rilegatura pesante e cinquecento pagine. Poco importa se contengono una storia che Maupassant avrebbe inserito nei suoi Contes, che di pagine ne fanno trecento, con trenta idee diverse e trenta racconti indipendenti uno dall’altro: oggi Maupassant scriverebbe un quinto e guadagnerebbe dieci volte di più. Oppure si tirerebbe un colpo, più probabilmente. E, leggendo Follet o Forsyth o un altro di quelli con un cognome da banca d’affari di Manhattan, il lettore prova, inevitabilmente, la sensazione di una pletora di descrizioni minute: un uragano di particolari poco significativi diluiscono la trama, l’intreccio e l’azione. Per raggiungere le fatidiche cinquecento, maledette, pagine. Alla fine del romanzo, rimane l’impressione di una bella storia, magari ben costruita, ma che si poteva raccontare in tre, quattro colpi di scena, al massimo. E che i deuteragonisti potevano essere tre, quattro: non venticinque, di cui venti scompaiono senza interferire incisivamente con la vicenda. O forse, questo pare a me, perchè affronto la pagina bianca maniacalmente: la vedo come un pentagramma, in cui solo l’accostamento esatto tra le note può dare origine ad armoniosi accordi e non a grottesche cacofonie. Ogni singola parola, ogni aggettivo che si accoppia col suo sostantivo, appare ai miei occhi come un frammento di un gigantesco mosaico: e solo una è la tessera che, per colore e per forma, si adatta perfettamente ad un’altra.
Questo mi ha sempre portato a detestare le epoche letterarie votate al contenuto: all’idea che prevale sulla forma. Le epoche magnificamente educative della letteratura mi hanno sempre fatto recere, sia detto tra noi: il Romanticismo, il Neorealismo, mi lasciano la stessa impressione di questa desolata letteratura contemporanea, che non racconta nulla e, per di più, non insegna nulla.
Lo so che esagero, come al solito. Ma, siccome queste righe, oltre a te, che mi conosci come le tue tasche, devono leggerle anche i nostri ventidue lettori (uno meno di Guareschi), voglio essere esageratamente esplicito.

È ovvio che non mi sogno di negare il valore di una letteratura densa di contenuti, siano essi valoriali come estetici: quel che voglio dire è che, se al posto dell’arte o dell’ottimo artigianato, si introduce il taylorismo nella creazione letteraria, la letteratura va a remengo. Insomma: non basta avere delle idee o delle visioni. Bisogna anche conoscere meticolosamente le regole della produzione formale: perchè in un’opera d’arte forma e contenuto si equivalgono e, anzi, spesso coincidono. Io preferisco una pagina, apparentemente non narrativa, scritta nel pirotecnico barocco di Gadda, a tutto Vittorini. Incornicerei con l’alloro e l’ulivo un’ipotiposi di Buzzati, laddove adibirei alla pattumiera tutto Baricco.
Perché è vero che senza idee non si scrivono romanzi, ma è ancora più vero che senza stile non si fa dell’arte, ma solo della scrittura. Guarda Tolkien, per prenderne uno che, rara avis, piace ad entrambi: pensa a cosa sarebbero le saghe tolkieniane scritte con lo stile delle sceneggiature dei Puffi! Pensa a quanti imitatori patetici, a quanti inadeguati raccontatori di favolette pseudoceltiche, similmedievali, fintoarcane, affliggono ed affollano le librerie, con le loro spade magiche, i loro segreti, i draghi e gli elfi: cosa crea quella vertiginosa sensazione di minorità che li divide dal maestro de Il Signore degli Anelli se non la mancanza di una formidabile volontà stilistica?

Questo e non altro voglio significare: che viviamo in tempi in cui l’orgia della comunicazione impone di scrivere e di raccontare. Ma gli strumenti latitano: i talenti languono. Lo stile manca. E manca perchè è proprio la forma, paradossalmente, l’elemento della scrittura che più risente della decadenza dei costumi: è la forma che necessita di tradizione e di scuola, di faticosa e lunga applicazione. La nemica è la fretta: la necessità di scrivere tanto e di venderlo subito. Tanto è vero che il tuo romanzo, formalmente più bello, è quello che più fatica a trovare sbocchi editoriali: il che non è affatto casuale.
Dammi retta, Gabriele: lo so che il lampo creativo affascina di più. Il vero demiurgo, però, quello che rimane nel tempo, non può che prendere le mosse dai caratteri più accademicamente formali, per inventare uno stile nuovo e sicuro. Il suo: che dopo qualche secolo diverrà, a sua volta, accademia. Chi si ricorderà, fra trent’anni, di Baricco?
At zalùt.
Marco


E no, caro Marco: i grandi narratori lasciano parlare l’avventura. È la storia, ragazzi! Non quei litri d’inchiostro con cui si sbrodolano tanti scrittori che usano la forma romanzo per farci la morale (o, va da sé, l’antimorale) e ci ammanniscono quei tomi illeggibili che piacciono tanto ai Re-censori. Quando apro un libro, invece, io voglio salire in carrozza e scendere solo quando ho finito l’ultima riga… sai, quando alzi gli occhi dalla pagina e, per qualche meraviglioso istante, ti guardi attorno senza capire dove sei? Ecco, questo voglio da un romanzo. Perché dovrei tafazzarmi con (sia pur poche) pagine di una trama scelta a bella posta per mostrare un bello scrivere?

Sarà pur vero che Stephen King è un autore fluviale che alluviona prima di arrivare al mare, ma la sua è tutta acqua che fa girare ruote di mulino: sono ben poche le gocce che vanno sprecate. Passaggi apparentemente inutili che riempiono pagine intere (apparentemente emendabili) tornano infine a incastrarsi in quel mosaico di cui anche tu parli, così da riempire spazi altrimenti irraggiungibili.
Prendi It: milleduecentotrentotto pagine, un mattone grosso così che rileggo periodicamente. Perché? Intanto perché mi piace tanto e già tanto basta. Ma soprattutto perché è scritto talmente bene che riesce a farti dimenticare che stai leggendo. Perché ci sono stili che soltanto a una lettura distratta possono apparire facili… ci sono leggerezze che, viceversa, sono raggiungibili solo attraverso uno studio matto. Ci sono modi di scrivere - per parlar chiari - che sulla pagina non lasciano orme, né tracce, né ditate… nessun segnale, insomma, che rimanga lì a dirti “Ehi, guarda che roba! Sono o non sono un grande scrittore?”.

Dici delle descrizioni minute dei vari Follet o Forsyte, ma mi hai forse mai sentito parlar di loro o visto leggere un romanzo di uno dei due? Quella è la narrativa un tanto al chilo di cui parli. Ma non è il caso di King o - per fare un altro nome - di Dennis Lehane. Ebbene sì, ho citato un altro yankee. Ma l’uno e l’altro hanno una lucidità, nell’osservare il Sogno Americano, che li avvicina a noi più di quanto possa apparire in prima battuta. Perché mostrandoci la dolce provincia americana, tra skate, pop corn, cinema e viali alberati, riescono addirittura a farci sognare quei luoghi. Ma poi, dietro il sipario di quell’America dorata, svelano i mille piccoli mali quotidiani che infangano quell’oro… E il bello è che non trasformano il sogno in un incubo vischioso: la bellezza resta, ma è proprio questo che rende infinitamente più spaventosi gli angoli bui che, forse, altrove sarebbero meno oscuri, magari solo per minor contrasto. È quando, come avverte Antonio Faeti, «si scopre che l’inferno e il paradiso appartengono allo stesso condominio». È quella stessa “America amara” di cui parlavano Emilio Cecchi e gli altri giovani intellettuali fascisti degli anni Trenta.
Romanzi di questo tipo, io sono felice di leggerli, mentre le storie dei tuoi Gadda e compagnia cantante sono corse a ostacoli, gymkane da superare con le scarpe affondate nel fango… Ma non perché uno non capisce: il fatto è che ti accorgi di leggere frasi scritte da qualcuno. Bada bene: lo stesso fastidio lo provo quando una bella storia viene scritta con i piedi! Perché qui non si tratta di scegliere tra scrivere bene una storia così così o inventare una storia bellissima scrivendola male… Ma scrivere bene non significa fare i narcisi per specchiarsi in ogni pagina: lo scrittore deve saper scomparire. Solo così gli accordi diventano la musica di cui parlavi, altrimenti l’armonia viene sacrificata al virtuosismo.
Parli di Tolkien come esempio di grandezza stilistica… ma il punto è proprio questo: nelle storie come Il Signore degli Anelli ti ci puoi immergere e dimenticare che dietro tutte quelle parole una in fila all’altra c’è un autore che le ha messe insieme. Con scrittori come lui, la purezza della forma risuona senza salire sul palcoscenico, è… come dire… un’orchestra che suona Rhapsody in Blue mentre Gary Cooper prende per mano Barbara Stanwyck, ma la musica che riempie la scena è in sottofondo e tu aspetti soltanto che lui baci lei. Punto. Lo stile raffinato di Tolkien rende la storia più credibile, certo, ma non ti soffermi a dire “mamma santa, quanto scrive bene!”, perché l’unica cosa che vuoi è andare avanti nell’avventura insieme a Frodo & C.
Insomma, come diceva Nils Liedholm, la padronanza dei fondamentali è necessaria, ma te lo ricordi Chiarugi? Era un fenomeno del dribbling, però finiva quasi sempre per attorcigliarsi su se stesso e perdeva la palla. Per restare nell’allegoria calcistica, Totti è stilisticamente eccellente, ma più di tanti altri fenomeni ha proprio quel “lampo creativo” che gli consente di stare una spanna sopra gli altri e fare della sua squadra uno squadrone.
Gabriele