sabato 29 marzo 2008

È estate, Mapang! (5)

Mapang non aveva mai corso tanto in vita sua.
Prima gli ultrabufali, poi quei mentecatti dei neopunk… Alla fine, pensando di aver messo abbastanza metri tra lui e le zecche-sonanti, come li chiamava Zivelianna, vide i vagoni della metro con le porte che si stavano per chiudere e ci s’infilò con un salto, fermandosi poi a fare ciao-ciao con la manina dal finestrino chiuso. Purtroppo per lui, una vecchia decise di farsi aiutare dal controllore proprio in quel momento, e le porte si riaprirono per qualche secondo: giusto in tempo per far sì che i neopunk arrivassero a valanga, seppellendo la vecchina, il controllore e Mapang, immobile al centro del vagone a smadonnare contro la sfiga.
Nessuno pensò di avvertire il conducente, e così la metro ripartì con la massa informe che si agitava sopra i tre sventurati. La vecchia, spiattellata sotto a tutti, non si muoveva più e il controllore vomitava addosso a Mapang, che, ad occhi chiusi per lo schifo, cercava di ripararsi da cazzotti e calci menati a casaccio dai neopunk. All’improvviso la pressione e i cazzotti finirono. Un istante era l’inferno, l’istante dopo, semplicemente, la pace totale (se in pace si può dire uno con naso sanguinante, labbro gonfio e tutto il resto imbrattato di vomito di controllore). In ogni caso, una piacevole nebbiolina fresca diede sollievo immediato alla faccia martoriata di Mapang, che la respirò avidamente, sentendosi immediatamente meglio. Decisamente meglio. Quasi euforico.
Cautamente si tirò su in ginocchio, aprì prima l’occhio destro e poi cercò di aprire il sinistro senza riuscirci… ma quello che vide col destro era più che sufficiente: neopunk, controllore e vecchina si erano volatilizzati, e sopra di lui ora torreggiava un uomo coperto da un grande cappotto nero e la faccia nascosta nel cappuccio. In mano, il cappotto-nero stringeva un nebulizzatore coreano: immediatamente l’euforia data dalla "piacevole nebbiolina" venne sostituita da una consapevolezza orrenda… «Oh merda! Mi sono fatto di neopunk nebulizzati!».
Malgrado tutto ancora euforico, Mapang stava cercando di capire se vomitare o no, quando il cappotto-nero gli puntò contro il nebulizzatore e parlò come se si fosse morso la lingua a sangue: «MVERMUE, MTI HO MRISPUARMIATWO PER GUARDARMTI IN FACCIUA MEMNTRWE MWORUI!».
«Come? Scusa, ma proprio non…».
Il cappotto-nero trafficò con un aggeggio che portava sul collo, e dopo qualche sibilo la sua voce uscì da un artoparlantino che portava al petto, gracchiante ma chiara: «Verme! Ti ho risparmiato per guardarti in faccia mentre muori!».
Bennng!
Il rumore della martellata sulla testa del cappotto-nero risuonò nel vagone come una campana del mattino. Quello, riassestandosi il cappuccio che gli era calato un po’ scoprendo una faccia cerosa, si girò lentamente verso Zivelianna, che se ne stava là, a bocca aperta, a guardare il martello con la punta sformata. Il cappotto-nero puntò il nebulizzatore sulla ragazza, ma prima di fare alcunché crollò al suolo con un mugolio soffocato. «Le palle!» gridò Mapang massaggiandosi il piede indolenzito per il colpo, «sulla testa non sentono niente. Non chiedermi perché, ma l’unico punto debole sono i coglioni… o quel che hanno là sotto. Andiamo!». Il treno aveva finalmente frenato e aveva aperto le porte alla fermata ‘Zaerbe. Mapang e Zivelianna schizzarono fuori rullando i primi passeggeri che cercavano di entrare.
Una volta in strada e sicuri di non essere più inseguiti, Mapang cercò di abbracciare Zivelianna. «Zive! Io non… non ci speravo più, di vederti. Ti…».
La ragazza gli diede uno spintone, allontanandolo: «Non ti azzardare a toccarmi, bastardo ingrato!».
«Zive…».
«T’ho aiutato solo perché mi sei passato davanti e ho visto il tipo che ti stava dietro… Bravo, bel furbo!» disse scuotendo la testa. «Se non c’ero io…».
Mapang vide le guance arrossate della ragazza e s’infilò nel varco come un coltello nel burro. Fece la faccia desolata (non che gli ci volesse molto) e allargò le braccia: «Ma io lo so che non dovevo dirti quella cosa, solo che non ero mai stato inseguito da due ultrabufali, prima. Dài, lo sai che sto male se stai male tu».
Lei abbassò la testa e raspò i piedi sull’asfalto. «Un signore è un signore anche davanti all’inferno» disse, ma la grinta era già scesa di tono. Dopo qualche istante di sospensione, Zivelianna alzò gli occhi e abbozzò un sorriso: «Davvero sei stato male?».
Mapang stava per abbracciarla, quando sopra le loro teste si sentì un frastuono assordante: due Agusta-Elefante con gli stemmi della Federazione sfioravano i tetti volando in direzione dell’Arena. Solo allora si accorsero che il cielo sopra l’antico stadio, a un paio di chilometri da loro, era tutto nero per il fumo che si levava da basso. Gli Elefante arrivarono sopra l’Arena e si fermarono in stallo, con le eliche che li tenevano immobili a mezz’aria come abnormi calabroni. Poi cominciarono a sparare con cannoncini e mitragliatrici.

(fine della quinta puntata)

mercoledì 26 marzo 2008

È estate, Mapang! (4)

Dalla galleria che collegava l’entrata al marciapiede direzione Giroaltro, tappezzata di manifesti con un Babbo Natale in bermuda hawaiani su una spiaggia tropicale, veniva una musica che a Mapang ricordava qualcosa, ma era talmente sbagliata che non riusciva a tornargli in mente. Intendiamoci, era quasi perfetta, ma forse proprio per questo il suo cervello si rifiutava di classificarla. Quando arrivò a metà galleria, vide che era un gruppo di grotteschi neopunk, impeccabili come la musica che suonavano, nel senso che avevano tutto al posto giusto: spille, sporcizia, anfibi e lattine di birra sparse intorno. Ma come tante imitazioni erano così teatrali che ti veniva da vomitare solo a vederli. E stavano massacrando Rock the Casbah (adesso l’aveva riconosciuta) con un’esecuzione perfettina perfettina: «Più cuore e meno mestiere, teste di cazzo!» gridò confidando nel frastuono delle chitarre elettriche perfettamente distorte. L’insulto cascò proprio sui 2,5 secondi del controtempo prima del ritornello: nella versione registrata (o anche dal vivo, se è per questo) quei secondi sono abbondantemente coperti dal rullo della batteria. Ma, disgraziatamente per Mapang, i neopunk della metro direzione Giroaltro non avevano la batteria, e il suo «teste di cazzo!» rimbombò sotto la volta della galleria come una cupa condanna a morte.
Essendo perfette imitazioni, i neopunk fecero precisamente quello che ci si sarebbe aspettato da loro: cioè la faccia brutta, e cominciarono a inseguire Mapang per le gallerie della metro, dove i manifesti demenziali con Babbo Natale surfista erano stati sostituiti con la pubblicità del concerto di Mezz'estate in piazza del Duomo.
A loro volta i neopunk erano inseguiti dallo strano tipo vestito di nero che inseguiva Mapang.
Ma dietro il tipo nero cominciò a correre qualcun altro.

(fine della quarta puntata)

giovedì 20 marzo 2008

È estate, Mapang! (3)


Gli allievi Elettropalli terminarono il giro trionfale con Mapang sulle spalle. Ma lui, invece di lanciare baci alla folla in delirio, guardava l’arco buio dov’era sparita Zivelianna qualche minuto prima, come se il solo guardare potesse farla tornare indietro…
«Alla fine ce l’hai fatta, filippin de merda!». Il ruggito con il quale l’omone accompagnò la tremenda pacca sulle spalle pareva il verso degli ultrabufali redivivi. Invece era solo Sbrego, il capo della Ti-Con-Nu, la mannerbund più importante del tifo veronese.
«Sono più italiano di te, Sbrego, non spaccarmi le palle, oltre alla schiena. Mi chiamo Mapang perché…».
«Bah… filippini, negri, romani… tutti uguali!» gridò, ma poi abbracciò Mapang in una stretta da orso, tutto contento. «Grazie, camerata! Oggi ti me gà dato una gioia grande: quei bastardi dei veneziani avevano scommesso un mese di Servaggio che finivi spiattellato nei primi cinque minuti della sfida».
Mapang lo guardò dalla testa rasata (una ventina di centimetri sopra la sua) alle Doc Marten’s sformate: «E voi avevate scommesso che avrei vinto?» gli chiese sbalordito.
«Ma va’ in mona, mato!» rispose Sbrego mollandogli un’altra pacca tremenda. «Avevamo puntato sul tuo spiattellamento dopo sei minuti!».
Tra una pacca e l’altra, Mapang era finito davanti alla garitta dei Maestri dei Giochi, dove avrebbe dovuto ritirare i Crediti vinti. I tre Maestri, però, guardandolo dall’alto in basso (non per la statura, ma perché rimanevano comodamente seduti dietro le finestre in cima alla garitta) gli dissero che la vincita era stata bloccata dai boss della Confraternita, che la reclamavano a copertura di un certo credito che avevano con Mapang.
«Ma i Crediti che ho vinto oggi valgono tre volte il debito che ho con loro! Quel carico…».
«A noi non interessano carichi e valori. Mi dispiace, ma è la regola» rispose l’Arbitro, cioè il Maestro più anziano. Quindi richiuse la garitta, dichiarando concluso il colloquio.
«Brutto bastardo incartapecorito!» gridò Mapang cominciando a scalare la garitta. «Non è mai esistita una regola del genere! Dammi i miei Crediti! Voglio i miei Crediti!» cominciò a gridare, prendendo a calci la porta in cima alla struttura di legno.
Suonò una sirena.
Dallo stesso arco buio nel quale era sparita Zivelianna, uscì uno squadrone di celerini che puntò dritto alla garitta dei Maestri. Manganelli in mano, una metà degli sbirri cominciò a scalare la struttura di legno per tirare giù Mapang, mentre l’altra metà cercava di tirare giù Sbrego, che da parte sua tirava calci in faccia a tutti quelli che si avvicinavano troppo. Alla fine, però, il numero ebbe la meglio sul mostruoso capo dei Ti-Con-Nu. Fu allora che le mannerbund dei tifosi assiepati sulle gradinate dell’Arena (i veronesi, ma anche i veneziani, che inaugurarono così il mese di Servaggio) con un urlo bestiale si riversarono sul campo di gioco prendendo d’assalto i celerini e sradicando la garitta. Mapang piombò al suolo con la porta ancora in mano. Sotto di lui si contorceva l’Arbitro, piangendo fratture multiple: l’unico arto ancora sano era la mano destra, e con quella stringeva avidamente il sacchetto dei Crediti reclamati dalla Confraternita; sulla pelle grinzosa del polso aveva un tatuaggio bluastro: era il tubo Farson, stemma degli Idraulici della famiglia Biancalana, proprio quelli che gli avevano fatto perdere il carico della Confraternita.
Con un sorriso felice, Mapang, gridando «molla l'osso!» calò la porta sul braccio residuo del vecchio Maestro dei Giochi e finalmente ottenne insieme il meritato premio e una piccola, gustosa, vendetta. Poi, con il sacchetto infilato sotto il giubbotto, svicolò carponi per qualche metro, quindi corse via dagli scontri e, infilandosi nell’arco buio, riuscì infine ad uscire dall’Arena, dalla quale già si levavano alte colonne di fumo.
Su Verona splendeva un sole stupendo. Sul petto, Mapang sentiva il confortante spessore dei Crediti vinti. Dentro il petto, però, nessun sacchetto sarebbe riuscito a riempire la voragine aperta dall’immagine di Zivelianna che se ne andava a testa bassa.
«Sono un fesso» disse scuotendo la testa, mentre cominciava a scendere le scale della metro direzione Giroaltro.
«Poco ma sicuro» pensò un tipo vestito di nero, alle sue spalle, «poco ma sicuro».
Ma disgraziatamente la lettura del pensiero non era una qualità in cui Mapang eccelleva.

(fine della terza puntata)

lunedì 17 marzo 2008

È estate, Mapang! (2)

«Giuro che questa me la paghi!».
«Sarebbe la prima volta che risarcisco qualcuno volentieri, ma ho paura che dovrò rinunciare alla novità: qua si mette male!».
Effettivamente, con due ultrabufali incazzati che li inseguivano nell’arena chiusa e neanche un’arma decente per difendersi… be’, "si mette male" suonava un po’ come una presa per il culo, ma a Mapang non vennero in mente risposte più appropriate, mentre correva insieme a Zivelianna.
«Di qua!» gridò buttandosi dietro il grande palo centrale, e lei lo imitò appena in tempo per evitare le corna arrotate delle bestie, che scavarono un solco profondo nel legno. Gli ultrabufali continuarono di slancio, sollevando una nuvola di terra nel vano tentativo di fermare la corsa e tornare a puntare i due esseri umani. E mentre Zive apriva la bocca per insultare ancora il suo compagno, il vento girò riempiendogliela di polvere. In quell’istante di tregua, Mapang si sentì come nella vecchia storiella zen… quella dell’uomo che sta appeso a metà di un burrone, attaccato a un ramo che si sta spezzando, con una tigre sopra e una sotto, e lui si gode il gusto di una fragola selvatica piluccata da una piantina sulla parete… «Solo che manca la fragola!». Ma intanto Vale stava riacquistando la voce, e i due ultrabufali riuscivano a controllare la corsa e cominciavano a girarsi per tornare indietro…
Già. "Si sta mettendo male" apparteneva ad un passato felice.
Suo padre glielo aveva sempre detto: «Quando cominci a perdere di brutto, non cercare di rifarti: paga o scappa!». È come una Legge Cosmica della Sfiga, tipo che se all’inizio va male poi peggiora. Ma lui non se n’era mai fatta una ragione, e di solito smetteva di addentrarsi nei vicoli ciechi quando si spiaccicava il naso sul muro in fondo. Anche con la storia del carico perso, Mapang s’era ingarellato un’altra volta con la legge del male in peggio… E ora, invece di arrovellarsi per una scusa credibile con quelli della Confraternita, stava lì a vedersela con le due bestie più cazzute mai scese nell’Arena da quando avevano riaperto i giochi (e con loro le scuse funzionavano meno che con i boss).
«Ci mancavi solo tu, adesso!» gridò a Zivelianna, che ne restò sbalordita.
«Ma brutto bastardo d’un romano! Son venuta qui a salvarti il culo quando…» cominciò a rispondere lei, ferma in mezzo all’Arena con le mani sui fianchi, senza più ripararsi dietro al palo, quando l’ennesima carica degli ultrabufali la costrinse a buttarsi di lato proprio all’ultimo istante. Le due bestie, disorientate dalla mossa improvvisa proprio quando pensavano di avere il bocconcino a portata di corna, si schiantarono una dopo l’altra contro il grosso tronco di legno stagionato piantato al centro del campo di gioco: il palo crollò a terra con uno schianto secco, e i due ultrabufali fecero lo stesso con due schianti secchi.
Le bandiere alzate dai giudici scatenarono il boato della folla assiepata sugli spalti, impazzita per l’incredibile soluzione dell’incontro.
Mapang, però, non fece caso a nulla di tutto questo… Aveva rischiato la vita per vincere, e ora si sentiva il cuore ridotto a un sasso: Zivelianna, a testa bassa, se ne stava andando dall’Arena.
«Zive, io…» cominciò… e mentre cercava (senza trovarla) una parola giusta per fermarla, gli allievi Elettropalli lo sollevarono portandolo in trionfo. E lontano da lei.

(fine della seconda puntata)

martedì 11 marzo 2008

È estate, Mapang! (1)


Aveva parcheggiato in un vicolo dietro al ristorante cinese di Zio D, vicino ai cassonetti dell’immondizia. Troppo vicino, probabilmente, ma se ne era reso conto quando ormai le porte della metro si erano chiuse dietro di lui…
Non che un ferrovecchio come il suo potesse attirare chissà quanti sguardi, no. Ma in quella zona le mannerbund degli Esterni erano da tempo impegnate in una gara demenziale a chi bruciava più cassonetti, e a farne le spese erano fin troppo spesso le autofly parcheggiate nei pressi. «Un giorno o l’altro mi lascerà a terra» pensò guardando le gallerie buie scorrere veloci dai finestrini del vagone, «ma finché dura…». Poi fece spallucce. «Tanto ormai è tardi».
In effetti era tardi per molte cose, non solo per mettere al sicuro un ferrovecchio come la sua Panda Millennium che, a ben pensarci, avrebbe non solo potuto lasciarlo a terra, ma anche («cazzo, è vero!») grippare mentre stava a mezz’aria, il che sarebbe stato ben più fastidioso che non ritrovarsi a piedi per colpa dei giochi pirotecnici di quei minus habens dei giovani Esterni.
Troppo tardi per molte cose, dicevamo. Perché - quello era il problema vero - tempo dieci fermate e avrebbe saputo di che morte doveva morire. «Ah! Morte… magari fosse…». In effetti, per uno come Mapang, perdere un carico poteva significare qualcosa di peggio della morte. Di notevolmente peggio, a ben vedere: quel poveraccio di Ro-Girge era stato scorticato per molto meno. Alla Confraternita non piaceva rinunciare al materiale, e di solito non perdeva tempo a fartelo notare.
Mapang guardò la propria faccia specchiata nel finestrino e fece un sorriso sbilenco: niente di che, come ripeteva sempre Zivelianna, prendendolo in giro, ma a quella faccia c’era abituato e gli sarebbe scocciato non poco doverci rinunciare.
Zivelianna… avrebbe fatto bene ad ascoltarla, invece di fare il paraculo con quelli del Biancalana: «Lasciali perdere» aveva detto lei salutandolo davanti all’Arena, «con gli idraulici non si fanno affari. Vedrai che ci perdi i denti e qualcos’altro».
Ma com’è che dicevamo prima? Adesso è tardi. Per questo, quando scese alla fermata di Giroaltro, accalcato nella folla di turisti, si ritrovò a sperare che l’arrivo dell’estate portasse un po’ di buonumore ai boss della Confraternita. «Magari, se mi presentassi con un pensierino…». A quel punto Zive si sarebbe rotolata a terra dalle risate. «Bah! Sono stato un pollo fatto e finito. Adesso dovrò inventarmi una scusa credibile, altro che pensierino!». Facile a dirsi, ma inventarti una scusa con gente che ti legge dentro la testa come sulle pagine del Pamantul risulta alquanto ostico, poco ma sicuro.
E con questa perla di saggezza, si avviò a testa bassa verso il Palazzo, che svettava a un centinaio di metri dall’uscita della metro.
Quando fu il momento di mettersi in fila ai cancelli per la timbratura vocale, però, Mapang ci ripensò: «E no, cazzo! Sarò pure un pollo, ma io non ci vado lassù a farmi spennare». Quindi continuò a camminare, e all’improvviso, come se il solo fatto di disubbidire gli avesse tolto il peso dal cuore, tutto gli fu finalmente chiaro: «Torno all’Arena e rivinco il carico».
E stavolta, mentre ripercorreva la strada che lo avrebbe portato di nuovo sotto la metro, la testa non era bassa. Anzi, se ne stava con il naso all’insù, guardando le autofly di nuova generazione che sfrecciavano tra le guglie di Giroaltro: «Magari domani me ne compro una anch’io», pensò. Perché la decisione che aveva preso, per quanto assurda fosse (più che assurda suicidale), gli aveva fatto tornare a galla il vecchio buon umore. E sulle scale della metro, fermata Giroaltro direzione Arena, prese a fischiettare la canzone di Zivelianna.

(fine della prima puntata)

lunedì 10 marzo 2008

Stephen King - It: amicizia e cuori impavidi lungo le strade dell'America amara

Fine dell’anno scolastico. Ecco l’estate assolata e oziosa e senza pensieri. Ma un gruppo di ragazzini scopre che dietro le atroci uccisioni avvenute nei mesi passati si cela un mostro dai mille volti, che si sveglia ogni ventisette anni per divorare pezzi di abitanti di Derry - preferibilmente bambini - e soprattutto infetta da sempre la vita della cittadina. It, così lo chiamano i ragazzini, assume le forme dei loro peggiori incubi, ma il suo marchio è una maschera da clown (buoni… il libro risale al 1985 e Prodi non era ancora arrivato in politica!). Riescono a ferirlo, ma dopo un altro ciclo di sonno ultraventennale nelle fogne dove si nasconde, torna, chiedendo un nuovo tributo di sangue: allora gli stessi ragazzini, diventati adulti, abbandonano famiglia e lavoro per mantener fede alla vecchia promessa e finalmente sconfiggere It…
La storia, in verità, non è raccontata in maniera così lineare, anzi è un continuo accavallarsi di flash back, un magistrale incastrarsi di tessere di un puzzle extratemporale, dove tutto torna e così il passato può spiegare il presente durante il presente stesso. Milleduecentotrentotto pagine, un mattone grosso così che rileggo periodicamente. Perché? Intanto perché mi piace tanto e già tanto basta. È scritto talmente bene che - come accade di rado - riesce a far dimenticare che stai leggendo: è la storia, ragazzi! Non quei litri d’inchiostro con cui si sbrodolano tanti scrittori che usano la forma romanzo per farci la morale (o, va da sé, l’antimorale) e ci ammanniscono quei tomi illeggibili che piacciono tanto ai Re-censori. King, invece, è uno di quelli che quando apri il libro sali in carrozza e scendi solo quando hai finito l’ultima riga… quando alzi gli occhi dalla pagina e, per qualche meraviglioso istante, ti guardi attorno senza capire dove sei.
Sono tanti i romanzi capaci di questa magia. Ce ne sono alcuni che, ovviamente ben più di questo, toccano corde forse più sensibili… per citarne uno, Il romanzo di Excalibur, di Bernard Cornwell, storia alternativa e straordinaria della magnifica vicenda di Re Artù. Eppure è It che porto ogni estate in vacanza. Come mai? È possibile entusiasmarsi per un semplice romanzo dell’orrore? La mia risposta ovviamente è sì, perché non ho preconcetti da Re-censore e, non essendo tale, non mi eccito davanti all’incomprensibilità, non provo godimento annoiandomi, non mi tafazzo con la contorsione fine a se stessa.
E poi, semplice questo romanzo non lo è affatto: parlare di genere per una storia così complessa e piena non è solo limitante, è assolutamente improprio. Perché l’ambiente dove si muovono Bill, Ben, Beverly, Stan, Mike, Eddie e Richie (il club dei “perdenti”, protagonisti di It - Sperling & Kupfer) è la dolce provincia americana, tra skate, pop corn, cinema e viali alberati… E King riesce a farci sognare quei luoghi, quel vivere, cogliendo ogni piccolo dettaglio che accomuna a tutte le latitudini la spensieratezza di quell’età.
Ma poi… Poi, dietro il sipario di un’America dorata, ecco svelarsi mille piccoli mali quotidiani che infangano quell’oro… E il bello è che non trasformano il sogno in un incubo vischioso: la bellezza resta, ma ora sai che non tutto è come appare… Così il Male maiuscolo - in questo caso It - si accomoda tra mille piccoli mali annidati nelle ombre della luce quotidiana.
L’America ha sempre incarnato il mito della Terra Promessa e, in effetti, ai pionieri e agli emigranti arrivati fin lì ha restituito con gli interessi tutti i premi per la fatica e i sacrifici gettati nell’impresa. Una terra che ha permesso il riscatto da una vita di stenti a milioni di persone, partite sconfitte e arrivate ad esser capaci - là dove «chi vale riesce a farsi valere» - di realizzare un sogno ritenuto impossibile. Questo mito è stato celebrato con film e canzoni ed è diventato il Sogno Americano. Ma è proprio questo che rende infinitamente più spaventosi gli angoli bui che, forse, altrove sarebbero meno oscuri, magari solo per minor contrasto. Perché scoprire vicende come Waco, Columbine, o Abu Ghraib con una marine che si fa fotografare mentre tortura un gruppo di iracheni nudi e un’altra mentre sorride felice davanti al cadavere martoriato di un prigioniero come se fosse la reginetta del liceo… imbattersi nell’orrore per le strade del paradiso… ecco, è quello il vero shock. Non è altrettanto scioccante quando altrettanti orrori vengono scoperti, chessò… in Cina o nell’Africa più remota, perché lì è solo inferno, mentre il vero orrore, come avverte Antonio Faeti, è quando «si scopre che l’inferno e il paradiso appartengono allo stesso condominio». Lo sapevano bene i raccontafiabe antichi, che avevano nascosto la prigione della strega dentro una casetta di marzapane. E lo sa bene Stephen King, che ha scelto di raccontare l’orrore più spaventoso… quello che ti aggredisce proprio dove ti senti più sicuro, dove mai dovrebbe essere possibile trovare altro che pace e serenità.
Nessuno come King è in grado di raccontare la dimensione aurea della giovinezza, ma accanto ad ogni gruppo di amici che si diverte, c’è sempre un gruppo di bulli, grossi, stupidi e violenti, che cerca di render loro la vita impossibile. Ma è solo il sintomo di una dissonanza più profonda… Perché proprio dietro l’angolo del viale alberato, dove la domenica si alza il profumo di salsicce che sfrigolano nel barbecue, rigirate da soddisfatti padri di famiglia (circondati da sorridenti figli di famiglia)… proprio dietro quelle casette di legno linde e pulite… è proprio là che il sorriso bonaccione e un po’ stupido di Ralph Malph («Sunday, Monday, Happy Days…») si trasforma nel ghigno del Mostro di Milwakee (e guardacaso il famoso telefilm e le sfortunate vittime del cannibale abitavano la stessa cittadina), o semplicemente nello sguardo assente del marito che pesta a sangue la moglie e poi si siede davanti alla tv, con una birra in mano, per godersi la finale del Super Bowl. Dietro quella del Sogno, c’è sempre un’altra America, nascosta dallo sfavillio delle luci, degradata e degradante e irrimediabilmente perduta.
Spensieratezza e disperazione, opportunità e orrore, libertà e ottusità feroce: facce opposte di una stessa medaglia che Stephen King riesce a mostrarci nella maniera più vera, magnifica e terribile. Faeti, nel suo La casa sull’albero (Einaudi Ragazzi), scopre illustri precedenti nell’analisi kinghiana, soprattutto nei giovani intellettuali fascisti degli anni Trenta, da Berto Ricci a Emilio Cecchi, che individuarono la “metà oscura” del sogno americano. In particolare, l’americanista Cecchi «anticipa King, lo prevede, scandisce le sue stesse allucinazioni, mentre racconta un linciaggio».
E ditemi se non è vero che questa pagina estratta dal diario di viaggio di Cecchi sembra presa pari pari da un romanzo del re dell’orrore: «Lo portarono in un bosco, a circa quattro miglia da Greenwood; lo evirarono e gli fecero mangiare quella carne. Lo tagliuzzarono sul ventre e nel costato; e lo bruciarono da capo a piedi con ferri roventi. Ogni tanto lo appiccavano a una fune, e ce lo lasciavano finché non fosse quasi strozzato, e allora lo calavano e lo ricominciavano a straziare. Gli asportarono tre dita di una mano, due d’un’altra, e alcune dita dei piedi. Finché decisero di finirlo. Legato il cadavere dietro a un’automobile, lo trascinarono davanti alla casa dei Cannidy. Uscì dalla casa una donna, e cacciò un coltello da macellaio nel petto del morto. Chi pigliava a calci il cadavere; chi lo schiacciava, passandoci sopra con la propria automobile; e i ragazzini lo punzecchiavano con i bastoni. Le dita, messe nell’alcole, furono custodite come cimeli preziosi. Un tale divise un dito per darne a un amico, in segno di specialissimo favore. La radio di Dothan, Alabama, aveva convocato la folla per assistere al linciaggio».
Agghiacciante, vero? Ne accadono ancora oggi, in altri luoghi del pianeta, di queste vicende. Ma quando avvengono in un Paese che si vuole baluardo della civiltà, è ovvio che l’orrore si moltiplica all’infinito, porta un senso di insicurezza, di pericolo continuo: neanche qui sono in salvo! Nelle sue storie, King avverte il lettore che deve diffidare delle casette di marzapane. E lo fa da sempre, fin dal primo romanzo, Carrie, che raccontava l’orrore che si può annidare dietro il sorriso angelico di una liceale, o dentro il cervello incrinato di una bigotta.
I grandi Re-censori, autoreferenziali, ignoranti e provinciali, avevano sempre snobbato il re dell’orrore (avendo letto solo i titoli dei film tratti dai suoi racconti) fino a che non è arrivato il contrordine-compagni dai loro “illuminati” compari d’Oltreoceano. È avvenuto in occasione dell’uscita di Cuori in Atlantide, che univa romanzi brevi e racconti lunghi legati da una serie di protagonisti dagli anni Sessanta ad oggi: finalmente King parlava esplicitamente di questioni generazionali comuni a tanti americani, dal Vietnam alle speranze di rivoluzione dei Figli dei fiori. Lo faceva da par suo, cioè splendidamente, conservando però intatti i Grandi Temi: l’amicizia, l’amore e il coraggio impavido. Ma sui grandi quotidiani ci fu un’esplosione di peana su un King finalmente uscito dalla palude del genere horror, finalmente cresciuto, finalmente approdato alla letteratura seria… e bla e bla e bla…
Fino ad allora le recensioni su di lui le avevano sempre affidate a poveri collaboratori. Bastò il contrordine-compagni per scatenare i mejo tacchi a sdraiarsi su paginoni interi. Fecero ovviamente una figura barbina, non arrivando nemmeno ad accorgersi che il primo capitolo di Cuori in Atlantide faceva parte dei ciclo più famoso del Nostro, quello della Torre Nera.
In verità, King ha sempre conosciuto la metà oscura della sua nazione, quella stessa America amara di cui parlavano Emilio Cecchi e gli altri giovani intellettuali degli anni Trenta che vedevano come, da questo punto di vista, «la civiltà americana non stava affatto dalla parte della novità, di una modernità esuberante e vitale, ma sul piano inclinato di una decadenza che procedeva di pari passo con i trionfi della scienza e i ritrovati della tecnica». Certo, nella vicenda di It di orrore canonico ce n’è a bizzeffe, ma c’è talmente tanto altro che mostri e paure sono soltanto il contorno saporito di un pranzo ricchissimo. L’amicizia, l’amore e il coraggio impavido sono gli elementi cardine di questa storia e rappresentano una formula immortale che, fin dall’antica Grecia, ha fatto la fortuna di poeti e cantori d’ogni epoca. King padroneggia questa formula da grande maestro e, con It, innesta l’orrore ignoto in quell’età di passaggio tra infanzia e adolescenza, già carica di misteri per l’incombere di un mondo - quello adulto - nuovo e sconosciuto, che spaura e affascina.
Quando Bill e i suoi amici tornano a Derry per la battaglia finale contro il mostro che infesta la città - che è la città -, perdono pezzi strada facendo e rischiano di soccombere proprio perché, diventati adulti, non credono più alla possibilità di concepire qualcosa di così misterioso e magico. Riusciranno a sconfiggere It in un solo modo: uscendo dalla palude dello scetticismo e ritrovando la forza di credere. Perché, come avverte lo stesso King nella dedica, «la verità di questo romanzo è semplice: la magia esiste». La magia potentissima del credere: naturale per i bambini, arduo per gli adulti, impossibile per quelli che non hanno il coraggio di lasciare briglia sciolta al puledro che scalpita dentro il recinto di una maturità che troppe volte è prigione.