lunedì 8 settembre 2008

BOTTA & RISPOSTA - ARWEN VS EOWYN: SACRIFICIO O RIBELLIONE, MA SEMPRE PER AMORE


di Marco Cimmino e Gabriele Marconi
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Quali sono le donne più degne d’essere amate? Quelle che resistono malgrado tutto e tutti,
o quelle che combattono a fronte alta? Quelle che muoiono di dolore per la morte del proprio uomo o quelle che si ribellano alle avversità?


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E no, caro Gabriele: la donna vera, quella che ama
 eroicamente ed eroicamente combatte, non è una specie di virago. Un uomo con le tette e la spada. È, semmai, quella che resiste come una rocca catara: quella che, senza strepiti di buccine, è capace di qualunque sacrificio per l’oggetto del proprio amore. Per capirci, nonostante le evidenti manchevolezze della trasposizione cinematografica, l’eroina del Signore degli Anelli, per me, è Arwen, non Eowyn. Arwen Undòmiel, figlia di Elrond e di Celebrìan, la stella del crepuscolo. Poco importa se sullo schermo è diventata una specie di supergnocca lacrimosa e sbaciucchievole: che mi dici, allora, del sire di Granburrone, che piange di gioia alle nozze della figlia (che, per lui, equivalgono al suo funerale), come un qualunque bottegaio? This is Hollywood, baby…
La storia, invece, ci fornisce esempi a iosa di queste femmine eroiche, che non si dimenticano mai di essere donne e, soprattutto, del fatto che la donna è diversa dall’uomo: né meglio né peggio, ma diversa. Arwen è immortale: è una mezzelfa della Terza Era e, se si recasse nelle terre di Valinor, potrebbe vivere in eterno. Decide di rimanere nella Terra di Mezzo, anche se tutto sembra perduto, anche se le ombre avanzano, sapendo che questo significa rinunciare all’eternità: se questo non è eroismo! Lo fa per amore, ma anche perch
é crede: la sua fede le porta speranza.
È lei la mia prediletta. Io non amo le fanfare, le armature chiassose, i proclami, la volontà invincibile di quelli che, alla fine, se ne restano a casa: ma so riconoscere il coraggio, quando lo vedo. E il coraggio femminile, almeno in letteratura, è soprattutto coraggio resistente: coraggio sostanziale. Da Alcesti alla moglie di Trasea Peto, la tradizione antica è piena di donne di questo conio. Ne prendo una, per tutte: Antigone. La più celebre eroina sofoclea non è una donna che sfida il potere, con parole altisonanti. Appare, anzi, quasi rassegnata: una forza superiore le impone ciò che si accinge a fare. Antigone va alla morte con tranquilla e dolorosa consapevolezza della ineluttabile necessità del suo gesto: seppellire un fratello, secondo la legge del sangue e della pietà. È l’amore, non l’odio che anima la tragedia.
Vero è ben, caro Gabriele, che nell’opera di Sofocle si contrappongono - come sempre nella tragedia greca - due visioni religiose e civili. Ma è altrettanto vero che Antigone è un personaggio completamente eroico e completamente femminile: apparentemente debole e indifesa, ma in realtà più forte della pietra delle mura di Tebe.Credo che l’archetipo sia nato allora: e da allora si sia evoluto e circostanziato, attraverso passaggi, talvolta evidenti, talaltra meno. Indubbiamente, ha molto influenzato questa immagine di eroismo al femminile la lezione cristiana: le martiri, ad esempio, il cui tranquillo senso del dovere si esemplificava sul modello della Madonna. Ecce Ancilla Domini. Però, dammi atto che la letteratura europea ha sempre percepito questa duplicità femminina, su cui noi due, ancora adesso, discutiamo e, anzi, spesso ci ha pure giocato sopra, creando donne di cartapesta, che facessero il verso alle nostre ispiratrici. Tutte le donne della cavalleria rinascimentale, ad esempio, Angelica e Bradamante, Armida e Clorinda, sono prodotti artefatti, artificiali. La vera anima bifronte dell’eroismo femminile è altra. Vediamo qualche esempio europeo.
Il primo nome che mi venga in mente è quello di Aude, moglie di Roland: Alda la bella, che compare in un solo luogo della Chanson più celebre della letteratura mondiale. Un’assoluta comprimaria, che, per solito, non lascia traccia in chi legga la materia di Francia. Invece, Aude esiste: e muore. La sua morte, sintetica al di là del lecito, è l’esatto contrario di quella, cerimoniale e protratta oltre ogni limite, di suo marito, Roland. Di lui conosciamo i
l transito nei dettagli: ce lo recita come un pupo siciliano, dicendoci che adesso muore, che si arrende, che aspetta gli angeli. E gli angeli arrivano, c’è il fervorino dedicato alla spada, che è chiara e lucente: alla moglie nemmeno un cenno. Roland non tollera che il lettore venga distratto dal suo gloriosissimo trapasso. Aude non appare, non recita, non tiene sermoni: muore di dolore quando le dicono che è morto suo marito. Muore d’amore. Tutto ciò che sappiamo di lei è quel che ci dice il poeta: ossia che non sopravvisse al terribile cordoglio. Questo è l’eroismo che amo: un eroismo romanico, non barocco.
Così, caro Gabriele, vedi bene che i miei gusti impossibili mal si accompagnano alle eroine del poema cavalleresco: alle donnone bionde, grandi e grosse, con l’armatura. Le Brandimarte, le Bradamante: Ariosto come Spenser, Boiardo come Tasso, il Faerie Queene e l’Amadigi. Fino alla caricatura meravigliosa del Saavedra: fino a Dulcinea del Toboso e alla valentia dell’ultimo errante, dell’hidalgo dalla triste figura. I secoli intermedi, tra Rolando e la modernità, furono afflitti da eroine bistrate e truccate: fu epoca di avvelenatrici e cortigiane: Beatrice Cenci
 e la Borgia Lucrezia, magistra farmacorum. Ma credimi, l’eroina che è cara al mio cuore non era sparita, eclissata dalle dame con l’ermellino e dalle fornarine, dalle Eleonore e dalle Caterine: aspettava, semplicemente, che la storia ripassasse di lì. E, quando il romanzo cominciò a staccarsi dall’archetipo rinascimentale, ricominciarono a far capolino, dapprima timidamente e, poi, con sempre maggior lena, le donne vere.
Perfino in quella fase monumentale dell’eroismo da baraccone che fu il Romanticismo, assistiamo a qualcosa che, se non è il ritorno delle donne eroiche, almeno ci assomiglia: accanto all’algida Rowena, appare Rebecca, ebrea piena di passione disperata. Ed è il 1810: Walter Scott forse lo ignora, ma sta creando il futuro, col suo Ivanhoe. Qualcosa di simile accade nella pur diafana femminilità di Lucia Mondella: troppo passivamente religiosa per avere un carattere, ma pure eroica nella sua ostinata fede, perinde ac cadaver.
Sarà però la grande stagione del romanzo francese a restituirci la donna, ero
ica al femminile: Eugenie Grandet è uno schiaffo in faccia alle dame e alle cingane di Victor Hugo, alle invasate di Stendhal, a Mathilde de la Mole, e che il diavolo se la porti.
Lo so cosa stai pensando: che, come sempre, mi lascio trasportare dal mio lavoro. Che non mi dimentico mai degli aspetti scolastici della letteratura e che questo mi acceca, mi distoglie dal problema vero. Sarà anche: ognuno è figlio del proprio destino. Ma, credimi, c’è un palpito autentico in quel che dico: certe donne di carta sono veramente capaci di emozionarmi. Come Gozzano, dolceamaro, tra lo sghignazzo e l’idillio, anch’io confesso, davanti all’amica di nonna Speranza: te sola avrei potuto amare, amare d’amore… Che dire di certe eroine capaci di asperrime bohèmes, portate fino all’estremo sacrificio purché il loro uomo riesca in qualche impresa titanica: possente eroismo dell’annullarsi per dare la vita. Come morire di parto. La protagonista sublime de Il lupo della steppa di Hesse, che muore perché il solitario possa terminare il cammino. Donne come pietre di Filitosa, come colonne sul
 promontorio. Non clamorose commedianti, come la dolicocefala bionda di Pitigrilli: sempre tesa a stupire, a vincere, a brillare. Neppure come le finte donne neorealiste di Pratolini, che a sedici anni ragionano come Ave Ninchi nel corpo di Alida Valli. Donne vere, dolorosamente inclini ad amare una volta sola e per sempre, senza remissione né rimpianto.
Caro Gabriele, io amo le donne carsiche, la cui vera vita scorre sottoterra, come il misterioso Timavo e la cui vena riemerge soltanto in prossimità del mare: laddove possano mostrare la loro vera natura, morendo. Quella che si innamora di Emilio ne La madonna dei filosofi, e continua eroicamente ad amarlo nel segreto, ad amare la sua assenza infinita, opponendo all’ottusa politica matrimoniale dei borghesissimi, ignari, genitori la caparbietà quieta dei suoi vent’anni.
Arwen, insomma, non Eowyn: colei che attende non quella che cerca la morte in battaglia, come qualunque uomo respinto farebbe. E oggi, mi dirai: dove sono oggi le eroine? In letteratura no, certo: le donne letterarie o collezionano uomini come si infilerebbero perline o sono psicotiche, incapricciate di qualche volubile mania, troppo grasse o troppo ma
gre. Troppo costruite e destrutturate: troppo poco donne per essere buona letteratura. Nella vita reale, probabilmente, qualche eroina di quelle che dico io c’è ancora: ma, secondo regola, o non mi conosce o, se mi conosce, mi evita. Eppure, mi piacerebbe che una donna così si occupasse di me: dei miei capricci e della mia avanzante demenza senile. Come l’amante del marchese di Roccaverdina: una donna caparbiamente fedele, che mi chiamasse «figlio mio» e mi pulisse la bocca quando sbavo. Ohibò. Un’amante di tutta una vita, come in Fort comme la mort di Maupassant: e io come Olivier Bertin, artista ben pasciuto ma ancora disposto all’impazzamento. Mi gusterebbe. L’esatto contrario di un’Emma Bovary.
Perché, in fondo, caro Gabriele, la verità è che sono io a non essere all’altezza di una donna eroica. Un’Arwen non me la meriterei. Ma di un’Eowyn, francamente, avrei qualche soggezione: metti che s’incazzi e mi tratti come il Nazgûl del Re Negromante…
Alla prossima!


E no, caro 
Marco: la donna vera, quella che ama eroicamente ed eroicamente combatte, non è quella che sceglie per sé una vita da zerbino per consentire all’uomo suo di pulircisi gli stivali nuovi. Ma non è nemmeno la virago che paventi tu, sia ben chiaro! Non potrei mai amare una Pentesilea regina delle amazzoni (anche perché non mi si filerebbe di striscio, pensando alla sua Clonia…). Però guarda Turno quant’era felice di avere al fianco in battaglia una tipa come la vergine Camilla, allevata a pane e lame epperò bella come il sole (e non per ni
ente Dante Alighieri la ricorda come la prima martire per la libertà della nostra amata patria). Tu mi dirai che infatti vergine era e vergine è rimasta, ma essendo morta giovane non sapremo mai se qualcuno l’avrebbe prima o poi conquistata visto che, a differenza delle amazzoni, lei non preferiva le donne agli uomini ma semplicemente si era votata alla castità come Diana cacciatrice, alla quale il padre Metabo, re di Priverno caduto in disgrazia e fuggito nei boschi, l’aveva affidata fin da bambina. Non potremo mai sapere se il Turno di turno sarebbe mai riuscito un giorno a spulzellarla, visto che lui venne sbudellato da Enea sulle sponde del Tevere e lei morì guerreggiando per difenderlo. Ma d’altra parte il mito è bello così com’è e serve con chiarezza d’immagini a togliere incertezze piuttosto che a crearne di nuove...
Vedi bene, Marco, che una come Camilla non si presenta con sparate ampollose e volgari vanaglorie, perché la verità è che l’ardimento, sia esso maschile o femminile, di barocco ha proprio nulla! Capiamoci bene, insomma: tu accosteresti le dichiarazioni altisonanti ai guerrieri più valenti? No, appunto… in vita nostra ne abbiamo coglionati fin troppi, di capitanfracassi, per non riderne ancora adesso, amico mio. E allora perché sminuire la valentia di certe donne con presunte vanterie barocche?
Il fatto è che la donna che s’immola m’intenerisce, certo, ma per far risuonare il ferro ci vuole altro ferro, n’es pas? Eowyn che va alla guerra cavalcando insieme ai Rohirrim in soccorso di Gondor non sacrifica la sua femminilità: la sublima seguendo lo stesso impeto che avrebbe preferito gettare in ben altra tenzone con Aragorn… Ma dico, te l’immagini i ruggiti di una donna del genere? Ecco, appunto, vedo che mi capisci, caro Marco. Va da sé che parlando di ruggiti si pensa al leone e non a caso: perché anche il re della foresta si guarda bene dal tagliar le unghie alla sua dama, visto che è lei a portare a casa la pagnotta mentre lui aspetta e, nel caso, difende lei e la famiglia da bravo soldato.
La donna che ami è come il Timavo, dici, che s’affonda nella roccia per scorrere in segreto, sospirando nell’oscurità, e poi mostrarsi di nuovo al cielo solo per morire, com’è sua natura… Mi tornano alla mente i sospiri di Melania per Ashley e già sento l’orticaria, vedi? Come si fa a ribollire per quella mielosa palla al piede che appesta le pagine di Via col vento di Margaret Mitchell? No no, io dico mille volte evviva Rossella O’Hara! Ma viva la faccia, caro Marco: con una donna così rivolti il mondo (certo, a patto di essere una scorza dura come Rhett Butler, ma queste sono sfide che val la pena provare). Con una come Melania l’esperienza più radicale che ti possa capitare (mi perdonerai) è beccarti il diabete mangiando pane e acqua.
E restando in tema di guerra… sarà che ai tempi dei casini a scuola e in piazza ho conosciuto ragazze che quanto a coraggio davano dei punti a tanti di noi maschietti, ma le uniche donne che nella letteratura contemporanea mi hanno commosso sono state quelle che hanno preso parte, non quelle che aspettavano a casa, appunto, sospirando. Le partigiane di Levi, se vogliamo (anche se parteggiavo per il fronte opposto), e tanto più le ausiliarie della Repubblica sociale, che pagarono lo scotto più terribile per aver voluto indossare una divisa votata alla sconfitta, in nome di quell’onore d’Italia per il quale i loro coetanei andarono incontro alla morte, quella fisica o quella della dannazione futura.
E che mi dici di Evita Peron? Dico, era o non era una che avresti pagato oro per averla a fianco? È grazie a lei se il peronismo è passato dalla storia al mito. Senza la signora dei descamisados argentini, regina di passione e dedizione e di bellezza e di eleganza e di coraggio, suo marito Juan Domingo sarebbe stato lo stesso? Io dico di no, e la storia della pallida seconda moglie Isabelita (quella sì, copia scialba e barocca della prima) ne è la prova provata.
Dammi retta, caro Marco, sarà pur vero che le nostre misere vite e i nostri tempi ancor più miseri non meritano una Eowyn né una Arwen… Ma se è vero che al volger delle tenebre l’unica luce viene dai sogni (che pure alimentano la speranza), allora che questo sognare sia intrepido e superbo, proprio come la figlia di Theoden che cavalca verso i campi del Pelennor.
Hasta luego, Marco. Alla prossima.