martedì 7 ottobre 2008

"IL REGNO NASCOSTO" SU "FANTASY MAGAZINE"

Potete leggere una lunga intervista agli autori del romanzo cliccando qui:
http://www.fantasymagazine.it/notizie/9408/

BOTTA & RISPOSTA - QUANTO È GRANDE LA CITTÀ IDEALE?

di Marco Cimmino e Gabriele Marconi

Prima erano Maccari e Bontempelli a litigare tra Strapaese e Stracittà. Oggi, in periodi di magra,
la polemica ritorna con questo più semplice faccia a faccia sul vivere quotidiano, se sia migliore
nella metropoli o nella provincia felix

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E no, caro Gabriele: questa volta non mi freghi! Non vorrai mettere davvero la qualità della vita di una metropoli convulsa e incasinata come Roma o Milano con quella di una piccola città di provincia? «La noia e il tedio a morte del vivere in provincia…» cantava Guccini: il che dà la garanzia che si tratti di cazzata sesquipedale.
La piccola città è casa e campanile, umanità e campagna. Se ci fai caso, da qualche decennio in qua, tutto il meglio dell’Italia viene dalla periferia e tutto il peggio dal centro: lo si diceva con Morganti, grande provinciale, che non si maschererebbe mai da cittadino e non scambierebbe mai la Marecchia con il Tevere o l’Olona.
La metropoli è corruttrice: ti lusinga, ti risucchia, ti trasforma: dopo sei mesi a Roma, un varesotto già comincia a dire famose du’ spaghi! È la potenza del numero. Certo, ci mancherebbe: nella grande città trovi tutto. Negozi aperti di notte e ristoranti maghrebini, sante e cortigiane per tutti i gusti, luci sempre accese e porte sempre aperte. Bella roba! Da noi, nel fondo della più provinciale provincia, la notte si dorme, perché al mattino si lavora! Però, è nella periferia dell’impero che la gente ha ancora il tempo di pensare, e guarda le piroette della politica, della moda, del cinema, vedendole per quel che sono: piroette, appunto, e nulla più. Il Bepi, seduto al bar, con davanti il giornale, commenta: «Non ci sono più gli uomini di una volta!»; che sarà anche un luogo comune, ma è la pura verità. Verità di provincia, certo, ma sempre meglio delle panzane che escono dalle redazioni e dalle sedi di partito, dove siede e si ingrassa un potere flaccido, autoreferenziale, alieno alla realtà del Paese.
La realtà siamo noi, caro Gabriele: non sono gli upper ten thousands, i felici pochi della tua bella canzone. La realtà di questa poverissima Patria nostra sono tutti gli altri: i milioni di esseri umani che fanno un’altra vita, che pagano la benzina e il biglietto del cinematografo, che vanno avanti e indietro tra casa e lavoro, che mettono al mondo figli e non corrono dietro alle soubrette. La vera Italia è questa, provinciale, banale, meravigliosamente normale: quella per cui la televisione è un passatempo, non un posto dove andare a parlare. Ricordo una conferenza che si tenne a Bergamo, parecchi anni fa: tra i relatori c’era quel geniaccio di Stenio Solinas, che, per il suo caratteristico amor di paradosso, sostenne ultra rationem la causa del centralismo cultural-politico. Voialtri provinciali, disse in definitiva, non contate una sega… potete pure discutere, studiare, applicarvi, ma il potere conosce solo due luoghi, in Italia: Roma e Milano. Perciò, potete pure finirla di organizzare convegni e pubblici dibattiti, perché, tanto, le cose si decidono altrove. Il che corrisponde a pura verità: la stessa persona, a Vigevano o a Milano, svolgerebbe ruoli diversi, avrebbe un diverso peso, indosserebbe abiti diversi, parlerebbe diversamente. In altre parole, a Milano farebbe carriera. Solo che il punto non è questo: a Roma si fa carriera? Si vive svelti? Si esce a cena col ministro tale e col senatore talaltro? Un bel chissenefrega non riesce ad esprimere tutto il mio disinteresse per la cosa: rendo l’idea?


A Bergamo, vado al lavoro in bicicletta, parcheggio sotto casa e mi accontento di essere il padrone assoluto del mio minuscolo impero, che comincia dall’ingresso e si conclude in camera da letto. A Milano o a Roma mi sentirei un pesce fuor d’acqua, un topo di campagna: perderei tutte le mani di quella partita a poker che è la vita.
Ognuno dovrebbe seguire il proprio destino: maestri di Vigevano e professori bergamaschi (facendo le corna…). E non citarmi Chicco Testa, che è un bergamasco sui generis: Testa non fa testo. Non si è mai visto un bergamasco che faccia una supercarriera senza ragione e che parli di tutto senza avere la minima idea di quel che si sta dicendo: è l’eccezione che conferma la regola… Oppure, magari anch’io diventerei consigliere culturale di qualche papaverone di partito, chessò: mi metterei in tasca dei bei denari, a forza di consulenze, sinecure e regalie. E poi? Poi mi infoiberei in un traffico che ti succhia il cervello, tutti i giorni, tutto il giorno: parcheggerei in tripla fila, ci metterei due ore ad arrivare a un appuntamento e, comunque, arriverei in ritardo. E, quando mi venisse voglia di vedere la neve, dovrei allungare il collo dall’ultimo piano, per ammirare l’azzurra lontananza del Soratte (vide ut alta…) o del Monte Rosa: remoti miraggi di libertà e di purezza.
No, grazie, caro Gabriele: ci vuole un’altra vita! Già odio entrare nei flussi umani di quest’epoca di pazzi: l’esodo, il rientro, la partita, l’ingorgo, l’outlet, il centro commerciale, il fitness, il diavolo che se li porti tutti quanti! Figurati se potrei vivere in un posto in cui l’ingorgo è la regola, la partita paralizza un milione di persone, la domenica sera ci sono venti chilometri di coda per tornare a casa…


La metropoli è labirinto e confusione: Walter Benjamin non era poi così fesso. Oppure è divisa in tanti microvillaggi: vivi nel tuo quartiere, dove conosci tutti e tutti ti conoscono: un mondo alla Pratolini, con cinquant’anni di ritardo. La Garbatella o Quarto Oggiaro come via del Corno. Come vivere assediati. Sai che bel vantaggio: un paese circondato da semafori e tangenziali, anziché da campagna e collina! Tanto è vero che un sacco di gente ha scoperto il pendolarismo di lusso: partono dai paesi dell’hinterland, con i loro suv e le loro station-wagon, vengono in centro a lavorare e, a sera, se ne tornano in campagna, nelle loro villette a schiera, pietra a vista, ampia tavernetta e doppio box, giardino di proprietà. Peccato che questo fare avantindrè si mangi dalle tre alle quattro ore della loro vita, ogni giorno: facendo due conticini, ogni anno questi giovani manager, questi medio borghesi su quattro ruote, si fumano cinque settimane di vita a premere frizioni e ascoltare autoradio, in coda. Sarebbe un anno ogni dieci… Sono quelli che amano Chiambretti, i romanzi da segaioli, con tutte quelle vite complicate da mille considerazioni superflue, le vacanze a Los Roques o in Patagonia: fanno così perché vorrei vedere te, quaranta giorni all’anno chiuso in macchina. Poi dicono che la gente rincoglionisce!
Invece, la provincia è rasserenante: c’è il sindaco tangentaro, l’assessore con la moglie zoccola, piccoli furti e piccoli imbrogli. Ci sono le commendatizie per far assumere in banca il figlio che non ha voglia di studiare, i salotti buoni e quelli così così, la gente che dice ancora: “Lei non sa chi sono io!”. A Roma non può accadere, perché tutti pensano di essere un pezzo talmente grosso da obbligare tutti gli altri a sapere chi è: anche l’ultimo stronzo, eletto in Parlamento perché ha una sorella gnocca che piaceva al capo corrente del suo partito.
Credimi, Gabriele: il futuro è provinciale. Con la televisione pay per view, i politicanti milanesromani non se li filerà più nessuno: chi vuoi che paghi per conoscere le opinioni di D’Alema o di Bonaiuti? Sarà una mutazione epocale: torneranno le serate in famiglia, a vedere Tutti pazzi per Mary. E i bradipi come me, quelli che hanno tutto nel raggio di un chilometro da casa, trionferanno.
Noi provinciali siamo inequivocabilmente cocciuti, siamo i Bartleby contemporanei: anziché “I prefer not too!”, ripetiamo, come un’ecolalia “Casa dolce casa”. E la nostra casa è anche la nostra città: una città grande la metà di un municipio romano. Qui da noi, se un figlio vuole fare il liceo classico, sale due scalette e ci arriva: se un ragazzino di Sesto San Giovanni si iscrive al “Parini”, gli tocca prendere casa in centro o alzarsi alle quattro del mattino! Vita, vita: è la nostra vita, questa…
La metropoli, ormai, è il simbolo della cancrena che corrode la nostra comunità umana: una sterminata massa di persone, tutte sole, tutte incazzate, tutte disperatamente concentrate nei propri itinerari, nella propria lugubre esistenza, nel loro perenne circuitare. E, allora, bisogna divertirsi, quando si può: tac, scatta l’ora dell’aperitivo, e migliaia di persone corrono, per assicurarsi un tavolino, uno sgabello, un angoletto. Perfino una delle più rilassanti abitudini italiane si trasforma in una specie di pratica agonistica, fastidiosamente obbligativa. La grande città: vista dall’alto è un deserto di lucine accese. Ti domandi cosa ci sarà dietro ogni finestrina, dentro quelle case, che ti sembrano tutte uguali: ti chiedi che vita facciamo e cosa stiamo diventando. La provincia è una gran mamma, dalle tette accoglienti: è una terra dello spirito, l’eterno ritorno, il rifugio e il castello. Lì, i suoni della metropoli arrivano ovattati, depotenziati: ci puoi anche far su una bella risata. “Sai, Fini ha detto così e cosà!”, “Ah davvero? Vuoi un altro po’ di birra? Salute!”.
Siamo così, noi provinciali: disinformati, disinteressati, anche un tantino menefreghisti. Ma dimmi tu, caro Gabriele, se valga la pena di informarsi, quando l’informazione è quasi tutta inutile o gonfiata. Dimmi se serva interessarsi a cose sulle quali non abbiamo la minima voce in capitolo. Dimmi se, piuttosto che farsi venire il fegato come un pallone, non sia meglio essere un po’ menefreghisti: portare fuori il cane, fare due chiacchiere col vicino, andare a sciare. Perché la metropoli, vista da quaggiù, è soltanto un formicaio. E tutti i grand’uomini che la affollano sono soltanto puntini, lontanissimi. Ti affacci al balcone, e vedi il sole scendere dietro i colli, con una fantasmagoria di rossi, di verdi, di rosa, di azzurri, e il profilo nero dei cipressi: casa, pensi, casa mia! Non ci saranno archi e colonne, ma ci sono le buone, vecchie, care pietre che hai calpestato da quando eri piccolo piccolo: e il mondo ti sembra tutto lì, minimo, ma caldo e pulito.
Perché noi, gente di provincia, alla fine, preferiamo star qui, nel nostro orticello, con il droghiere e il giornalaio che non ti chiamano “dotto’”, a meno che non sappiano che fai il medico, e, anche in quel caso, non sono usi all’apocope. Perché la periferia dell’Italia è questo: un posto normale per gente normale. Senza ricchi premi e cotillon, ma, almeno, un posto vero.
Non voglio mica dire che Roma o Milano non siano posti veri, intendiamoci: solo che hanno perso la loro anima. C’è la canzone di Marcello che è meravigliosa, commovente: ma quella non è Roma, è un sogno ad occhi aperti. Certi luoghi si sono, per così dire, diluiti: troppa gente, troppi forestieri, troppe cose insieme. Dov’è quella Roma profumata, un poco sguaiata, in falpalà, di Trilussa? Dove la Milano sensata e sanguigna di Carlin Porta? Dov’è che si nascondono Meo del Cacchio e Giovannin Bongee? Cosa è rimasto delle metropoli, al di là delle insegne luminose, delle fermate della metro, dei raccordi anulari? Sapessi quanto le ho amate, le grandi città, quando me le immaginavo soltanto: la Parigi di Maupassant, la Londra di Wodehouse, la Milano di De Marchi e la Roma di Pascarella! Ma oggi, in quest’epoca meravigliosa di globalismo e di benessere, cosa distingue Roma e Milano da Pechino, Vancouver, Berlino? Non intendo il clima, né i monumenti: dico dello spirito delle città, della loro intima personalità. Le grandi città, ormai, sono tutte uguali e, quel che è peggio, anche le cittadine di provincia si sono avviate in questa direzione: scimmiottano le metropoli, si truccano, si dipingono, si riempiono di obbrobri architettonici, progettati da dei Renzo Piano in diciottesimo, per ricreare delle Potsdamer Platz grottesche, a Brescia, a Treviso, a Pordenone.
Lo vedi Gabriele: il cancro dilaga, dal centro verso le periferie dell’impero. Bisognerebbe capirlo e intervenire: riprovincializzare le metropoli, rivalutare il villaggio, il comune, la polis. Sì, figurati…
Comunque, per ora, resistiamo impavidi, sulle nostre barricate di polenta taragna, armati della trisa per mestare nel paiolo. Domani è un altro giorno: una volta o l’altra dovrò cambiare automobile, e chissà che non mi compri un suv! E pensare che Roma è la città più bella del mondo! Che peccato il progresso…
Alla prossima.


E no, caro Marco: sarà perché mi prendo la libertà di esser io a risponderti (e arrivando secondo posso aggiustare il tiro), ma a fregarti ci hai pensato da solo in partenza! Tutto il meglio dalla periferia, dici? Anzi “dite”, giacché ne convenivi col Morganti? Ah! Bella questa: allora Cogne è un quartiere di Milano, Niscemi un rione al centro di Roma e Manfredonia fa cinque milioni di abitanti… Non dico che anche in una metropoli non possa accadere che una mamma ammazzi il proprio figlio, un branco massacri e uccida una ragazzina dopo averci fatto sesso o un’altra ragazzina venga assassinata a pietrate alla fine di una storiaccia infame. Ma le esplosioni di follia e il degrado più abominevole, negli ultimi anni, a me pare più facile trovarli nei paeselli che tu dici del bel vivere.
È che questa mania della fuga dalle città per tornare alla campagna sta facendo più danni di un piccolo tsunami. Perché nel silenzio e nella solitudine le depressioni s’ingigantiscono.
Certo, non è tutta così la provincia, anzi! Ma nemmeno è quel paradiso dei buoni sentimenti che vorresti convincermi a credere. E dimmi poi perché mai in città non dovrebbero esserci quei simpaticoni dei quali vanti la frequentazione nella tua Bergamo o dove vuoi tu…
Il problema vostro… dico di voi provinciali… è che pensate davvero che la città sia quella che appare in televisione: ma ti pare che a Roma o a Milano tutti escano (o vogliano uscire) a cena con quest’assessore o quel ministro? (E che quell’assessore o quel ministro debbano per forza essere malvagi?). O che il desiderio di tutti sia diventare consigliere e/o manutengolo di qualche papaverone? L’idea che avete della città è così radicata (proprio come le vecchie perle di saggezza popolare…) che nulla potrebbe mai sbiadire l’immagine così come l’avete costruita: in città si fa così e cosà, sono tutti così e cosà… tutti corrono (a Milano) tutti poltriscono (a Roma) e tutti sono avidi e arrivisti (sia a Milano che a Roma).
Perdonami, Marco, ma il tuo ragionamento sfiora quello del “Milanese” che spiega ai fratelli Caponi (Mario Castellani a Totò e Peppino) come ci si deve vestire e comportare a Milano per andare a trovare la Malafemmina…



Ed è vero che a Roma quasi mai trovi quello che dice “lei non sa chi sono io”… è difficile che accada, ma non perché tutti pensino di essere chissà chi, come dici tu: è che ai romani non gliene potrebbe importare di meno di chi sei o dici di essere. Mi viene in mente quella volta in cui zio Renzo, alle prese con un tizio che gli aveva risposto appunto col fatidico «Lei non sa chi sono io», alzò le mani e disse ad alta voce: «Zitti tutti, che adesso ‘sto stronzo ce dice chi è!». Roma è questa, Marco e tu lo sai.
Perché la questione va inquadrata più da vicino, caro mio! Certo che se osservi la città dall’alto, a volo non d’uccello ma d’aereo, vedi un agglomerato informe che avanza verso la campagna come una metastasi. Ma non è così che funziona: anche le grandi città sono formate da tanti piccoli centri - i quartieri - dove il vivere quotidiano è molto più simile a quello del paese di quanto si possa pensare… E infatti sbagli a citare la Garbatella, perché è tutt’altro che un quartiere-dormitorio come Quarto Oggiaro. Ci sono i Brutti Posti, ovvio, come dappertutto, ma di solito i vantaggi superano di gran lunga i difetti. E non sto là a sbattere sul tavolo la briscola e l’assopigliatutto della vita culturale, come farebbe quel dandy d’altri tempi che è Renato Besana, che ti ricorderebbe «la linea perfetta di una Lamborghini Miura, il disegno delle stanze della Torre Velasca o del grattacielo Pirelli» che son tutti frutti cittadini, come cittadina è la nostra civiltà da sempre. No, non voglio infierire con le occasioni culturali che in provincia devi cercarle col lanternino: parlo proprio di vivere sociale, di conoscenze e possibilità d’incontro, per i bambini come per i vecchi, che in città trovano un’assistenza che in provincia se la sognano. E mia figlia per frequentare il classico andrà all’“Orazio”, che sta là in fondo alla strada e che è frequentato da tutti giovani “indigeni”… insomma del quartiere. Poi se c’è qualcuno che, abitando a Centocelle, ha la fregola di iscrivere il figlio al “Mamiani” perché i rivoluzionari di buona famiglia ne parlano tanto bene su La Repubblica e ci fanno i film, be’, fattacci loro!


Insomma io ci vivo bene in città, non sono di quelli che scappano ogni sera in campagna perdendo nel traffico la pace che acquistano nella casetta di provincia. Vedi, le pietre che ho calpestato da bambino, quelle di cui parli, anche loro stanno sempre là nel prato dove giocavo a pallone. Certo, magari qualche punto di vista s’è perso: prima si vedevano i Castelli e arrivava il ponentino, mentre adesso svettano le insegna dell’Ikea e di Leroy Marlin…
Il fatto è, caro Marco, che quel che tu rimpiangi delle città che non ci sono più, è vero per tutto il nostro mondo e il nostro tempo! È vero per la metropoli come per il paesello. È vero al Sud com’è vero al Nord. Fidati, che anche se Trilussa e Carlin Porta potessero tornare in vita oggi stesso, sceglierebbero ancora la loro città, con tutti i difetti antichi e nuovi. Perché quello che fa più danni, il consumismo immorale, è qualcosa che non si ferma ai confini della metropoli, anzi! Arrivo a dire che il cancro edonista fa più danni in provincia, perché i miraggi mostrati in tv, le icone alzate come tanti vitelli d’oro sono più lontani e frustranti che mai: e allora, uno che si compra il bolide e gli occhiali fascianti, dopo aver palestrato e lampadato il corpo, che fa? Si ferma al bar davanti alla chiesa, guarda i vecchi che giocano a carte, le stradicelle buie (ché i paesani operosi dormono presto il sonno dei giusti), si scola quattro o cinque sani bicchierozzi provinciali, dopodiché per vincere la noia si va a schiantare contro la vecchia quercia in fondo alla statale, quella dove si arrampicava da bambino e che, grazie al sano vivere paesano, sta ancora là…
Quello che diceva Konrad Lorenz sul vivere in città, con le case che non a caso diventano appartamenti, con la gente che appunto si “apparta” e non condivide più il vivere sociale, è sacrosanto, come no! Ma è vero tanto più in provincia, ormai, perché è lo spirito comunitario ad essersi spezzato e l’egoismo, allora, mette radici molto più solide nelle casette isolate l’una dall’altra che si trovano in provincia, dove ormai il visitatore serale non viene più salutato come un gradito e sacro ospite come accadeva un tempo, perché oggi, quando fuori è buio e la casa più vicina sta a duecento metri e il commissariato è lontano quattro chilometri, se bussano alla porta la prima reazione è di paura! Non ti aspetti allegri conoscenti ma una banda di nuovi desperados specializzati nelle rapine in villa.
E allora, facendo due più due, mi tengo amatriciana e coda alla vaccinara. E aspetto in un domani migliore, non credendoci più di tanto ma sperandolo da morire. E cercando ancora di volerlo.
Sulla chiosa ti correggo: che peccato questo progresso!
Alla prossima.